a Roma! -- di Paola De Luca

È un testo quasi privato, quello che segue. Non era destinato al colto pubblico, ma alla sola inclita guarnigione, che ne aveva fatto gentile richiesta.


"Davvero torni a casa? Me lo devi raccontare perbene"
"Farò un diarietto. Promesso."

Era il 2010, e dopo 30 anni di esilio Paola De Luca poteva 'rientrare' in Italia. Tornare a casa, rientrare nel paese, sono modi di dire, immaginarî, supposizioni, da trent'anni la casa è altrove, non è un ritorno, non si ricomincia da 'dove eravamo rimasti?'.
Il rito di passaggio dell'uscita dal carcere è conosciuto, e si può capire che molti possa significare tirar giù la saracinesca sulla galera che ci si lascia alle spalle.
Ma quello dall'esilio? L'esilio non esiste, nessuno lo decreta, perché è una pena equiparata alla pena di morte. E l'esilio da un regime democratico, esiste ancora meno, perché è innominabile. I fuggitivi sono criminali comuni, delinquenti ricercati, dicono: anche se la stessa identica cosa la proclamano i regimi autoritari, teocratici, tirannici o dittatoriali.

Il rito di passaggio della fine esilio consiste nel ripassare dalla casella di partenza. Una banalità, ancor più se senza cerimonie? Si tratta di chiudere il cerchio rimasto aperto -lasciando una vita in sospeso- dal giorno della partenza. La vita è continuata lo stesso, altrove, altrimenti, ma quell'atto simbolico permette di ricucire lo strappo.

Paola non racconta di simbolismi, ma di emozioni e ricordi. Racconta a se stessa, si dà del tu, come se le due vite si confrontassero per riconciliarsi definitivamente in una sola.

Grazie anche per questo, Paola.

a Roma!

di Paola De Luca (2010)

Sei in Italia da tre giorni, a Roma da due giorni e una notte.

Grazie alla tua amica più cara e alla sua famiglia, l'entrata a Roma è stata fiabesca. Sei in auto, abbassi il finestrino e annusi e fremi. Le Terme di Caracalla, via della Conciliazione, via dei Fienili. Un ristorante con terrazza circondata da riccosperma in fiore. Il profumo t'entrava da ogni poro e si addensava a ogni minuto che passava. Era Roma di giugno, era la carezza dell'aria, la pietra tiepida, i pini che si disegnano sul turchino del cielo.

Tuo fratello ti aspettava e avete brindato, scherzato e riso per tenere a bada l'emozione.

Rivedere i Fori dopo trentanni. Il Colosseo, il Palatino e il Campidoglio. Il corpo perdeva la consistenza dell'esilio, fatta di durezza e resistenza. Restava solo la pelle, esposta alla bellezza, e i ricordi, che si permettevano di riemergere.

Avevi paura di aver dimenticato tutto. Invece le strade, le salite, le discese, l'idea del fiume e dei suoi ponti si rimettevano a suonare, come vecchi dischi ancora in buono stato, il timbro sonoro, solo un po' più lenti, come sdilinquiti dal tempo.

Casa di Giuliana, immaginata per tanti anni. C'eri dentro infine, ritrovavi la tua amica di sempre nei suoi spazi, negli oggetti scelti e amati e curati. C'era anche la tua assenza, in casa sua. Un fantasma di te che oramai appartiene solo a lei.

Il giorno dopo, il Portico d'Ottavia, l'Anagrafe, via dei Giubbonari, Piazza Farnese, Corso Rinascimento, Piazza Navona. Come una turista, in mezzo ai turisti a ritrovare statue e proporzioni, fontane e palazzi. Largo Argentina, le nuove Poste, Piazza di Spagna, il Babbuino, Via Margutta e resti di glicini in un androne. Sbocchi a Piazza del Popolo, t'allarghi tutta, il petto la fronte si fanno

piazza, giri in tondo, ogni leone, ogni chiesa, sali la rampa, passi verso via dell'Oca e della Penna, lungotevere, senti il fiume che ti freme dentro. Tutto più bello, più pulito, più verde. Poi i Prati, la tua amica ti porta a mangiare nel quartiere dove sei stata bambina, anche là, tutto più limpido, più ricco e soprattutto più fiorito. Tutti parlano la tua lingua, anche se tu tu non la parli più veramente, la tiri fuori dalla naftalina, i romani se ne accorgono? Ogni tanto hai l'impressione che facciano uno sforzo per capirti, ti manca il gergo moderno, e ti impicci con l'altra lingua, pardon.

Piazza Augusto Imperatore sfregiata da un cubo bianco che oscura la chiesina di San Rocco, proporzioni faraoniche, insensate. Ma magari Ottavio l'avrebbe apprezzato, lui che aveva trovato una Roma di mattoni e l'aveva trasformata in una Roma di marmo.

Il tuo liceo, i platani sfarzosi, i tigli, le acacie. E ancora il fiume a guidarti, il Convitto Nazionale (ci sarà ancora?) il Foro Italico, ponte Duca d'Aosta. Sei in automobile, lasci le immagini entrarti negli occhi, il sole accende gli argini tutti verdi.

Il nuovo Centro d'Arte che si chiama Maxxi, l'ha disegnato un'iraniana, ha creato un luogo pieno di silenzio, con le forme che si srotolano nello spazio. Ci trovi dentro un artista che ami da tanto, con i suoi legni e le sue pelli. Un uomo albero che trasmette essenza d'albero. Senza fronzoli, senza chiacchiere. Sei a Roma, una Roma diversa come sei diversa te.

Avevi talmente paura di questo confronto, e invece sei piena si sensazioni calme, hai agganciato una dolcezza che non avevi prima. Villaggio Olimpico, altro liceo, i tuoi diciott'anni febbrili. Tutto è cambiato, ma riconosci un posto da dove parti' una manifestazione dura. Tu sei sempre là, con i compagni, a sbraitare contro lo stato autoritario, ma sei anche questa donna anziana che cammina e guarda lentamente e non si accorge di sorridere. Il tempo sembra un ventaglio che si agita, si piega e si spiega, rivelando disegni e merletti effimeri.

L'Auditorium disegnato da Piano. A te forme e i materiali piacciono, i tuoi amici invece lo criticano aspramente. Immagini le polemiche romane, tu ne stai fuori, non sai niente, ma non è grave, gli argomenti scivolano, solo le voci contano, voci che ami.

Ancora, in macchina : Piazza Euclide, poi Via Veneto, si gira nel traffico poi vedi il Rialto, di nuovo la ragazzina che eri compare davanti al cinema, sta sempre là a discutere di lotte e libertà, scendi verso Piazza Venezia, di nuovo i Fori, poi verso quartieri che non conoscevi, ti sembrano signorili, verde dappertutto, alberi e oleandri, di nuovo in casa della tua amica, nei suoi terrazzi giungla, scopri nuove gardenie, le rose gialle, le ortensie bianche, ti siedi accanto alla lavanda e chiudi gli occhi, ma continui a sorridere. Alla sera, in moto, a Testaccio. C'è una fauna nuova che gira, il telefonino incollato all'orecchio, anche la lingua è tutta piena di parole sconosciute, ma il dialetto ti sembra più greve che nei ricordi, il vinaio è diventato sofisticato, macchine dappertutto e motorini che sfrecciano. Alzi gli occhi e le case popolari gialle e arancione sono allegre e nei piani alti ancora sfavillanti dell'ultimo sole.

Dove sei? In un prisma. E' ora di andare a vedere tua madre. Coraggio.

All'inizio non riconosci niente. L'habitat si è esteso dappertutto. La casa dei tuoi era fuori dalla città, c'erano chilometri vuoti tra le ultime case dell'Eur e il quartiere residenziale dove ti avevano trascinato a diciassette anni, all'inizio facevi l'autostop per tornare al centro, dove si svolgeva la tua vita. Ora è tutto costruito, la via Cristoforo Colombo è raddoppiata, i pini sono cresciuti e cambiano tutta la prospettiva. Per fortuna l'amico che ti accompagna ha un aggeggio per la direzione, tu avresti messo ore a ritrovare il bivio. Poi si passa sotto alla Colombo e non c'è più un metro non costruito, la strada di casa è fiancheggiata da due colonne di automobili, non si sente più l'aria del mare, da ragazzina era stata l'unica consolazione di quel trasloco obbligato. Molto verde e molti fiori. Poi il cancello e mamma frastornata, tu frastornata, la memoria dei luoghi sembra non attivarsi, non sai più dov'è il bagno, la casa è tutta buia e fitta di sbarre peggio di una prigione. Quando tu eri in esilio sono arrivati gli immigrati e insieme a loro i ladri e i ladruncoli i criminali veri e quelli d'occasione. Dopo un paio di furti, i tuoi genitori si sono barricati, poi tuo padre è morto e tua madre ha avuto ancora più paura, ora esce di rado, innaffia il suo amato giardino ma poi non ci resta, rientra e si siede con la luce accesa davanti alla televisione. E' vecchia, piena di rancore per le immagini violente che le trasmettono a tutte le ore, se la prende col politico al potere e lo accusa di tutti i mali. E' colpa sua se a piazza di Spagna i turisti si lavano i piedi nella Barcaccia, se i romeni non sono puniti abbastanza e tornano a delinquere, se i vigili non fanno le multe.

Tu cerchi tuo padre e lo trovi solo sotto la sefora, dove aveva l'abitudine di riposarsi, provi a parlargli, guarda sono tornata, ce l'abbiamo fatta ?. Ti commuovi e ti viene da ridere perchè diventi come lui, con l'étà ti è venuto il pianto facile. Il pino romano della casa grande, quella dove hai vissuto prima di andartene da sola, l'hanno ammazzato avvelenandolo, per aggirare la legge e mettere una piscina al suo posto. La casa grande è sventrata, se l'è comprata un calciatore che ha fatto cominciare i lavori per poi lasciarla tutta nuda, irta di ferri rossi e scalcinata, davanti a quel povero pino bruciato.

Dall'angolo, vedi un muro della tua vecchia camera, non c'è più neanche la finestra, e una parte del tetto è stata tagliata via. Chissà che vorrà farci il calciatore. Magari aveva in mente una roba holliwoodiana, ma s'è spaventato per tutti i fantasmi che abitano ancora quei luoghi. Tu ora vedi tuo fratello a terra davanti alla porta, è scivolato e ha battuto la testa, siete soli in casa, lui ha quattordici anni e tu ne hai diciotto e non sai che fare. Piove e lui non si muove e tu hai paura di trascinarlo, grande e grosso com'è non gliela fai a sollevarlo e allora gli copri la testa con un telo e corri a chiamare aiuto. Il ricordo si ferma là. Ma forse la scoperta dell'amore che ti legava a lui e il terrore di perderlo sono rimasti coagulati su quella pietra e hanno scacciato il calciatore e la sua voglia di lussi pacchiani.

Mamma ti tratta come un'ospite, non ti permette di fare niente, ti vuole dimostrare che è autonoma, che ce la fa da sola. Ci mette due giorni a lasciarti il volante, a non venirti dietro per pulire il bagno. E' andata fino in centro per comprarti delle lenzuola, ci è anche tornata il giorno dopo per cambiarle con altre più adatte al letto, per lei sono spedizioni epiche, ore di traffico, gente scortese che la spintona, schiena che duole per giorni. Ha comprato una caffettierina perchè sa che ti piace il caffé vero e non il suo liofilizzato che non schizza sui fornelli. Nell'oscurità della cucina, ti chini fino a un centimetro dal fuoco, per scovare la macchietta da asciugare e lasciare tutto lucido come lo hai trovato.

Ci vuole tempo, l'estraneità è palpabile, ogni tanto uno squarcio intimo, subito richiuso da entrambe. Ma è sempre stato cosi' tra di voi.

Vai alla festa dei sessant'anni di una tua amica del Nord, sono anni che ne hai voglia, ti telefonavano per dirti che non ti avevano dimenticata, tu guardavi il cielo di Parigi e la corazza del cuore si faceva sempre più spessa. No futur. Te ne accorgi adesso, di quanto ti impedivi di proiettare, di sperare, di immaginarti altrove che nel sempre più piccolo spazio che ti eri disegnata intorno, pochi passi fino al supermercato, qualche fermata di metro, le case di pochissimi amici, obiettivi precisi, da anni non ti perdevi più nella città, era paura senza nome, ma pur sempre paura. Anche raggiungere la casa nuova di tua figlia era uno stress. E' questa la vecchiaia?

Un amico che ti conosce bene ti aveva detto un giorno che l'acquisto della casa in Corsica aveva costituito come una « transizione » in attesa del ritorno in Italia, che ormai si precisava. Una tappa per ritrovare il sole quotidiano, i colori e i sapori mediterranei, ma pur sempre sotto l'identità straniera che in un modo o nell'altro ti proteggeva.

E, senza averlo mai veramente deciso prima, è proprio dalla Corsica che sei « rientrata » in Italia, per mare, hai guardato le terre avvicinarsi, Capraia, l'Elba, poi la brutta Livorno, hai accostato in dolcezza, neanche un fremito d'impazienza per sbarcare dalla nave, il ritmo lento della navigazione era l'unico possibile.

Asfalto del porto di Livorno, lo hai toccato con la palma aperta e il fratello della tua amica che era venuto ad attendervi aveva i lucciconi negli occhi e gli si sono bagnati i baffi severi. Ma allora ti hanno voluto bene tutti questi anni?

Mentre tu ti dimenticavi di te, loro ti tenevano viva?

Devi andare alla stazione Termini. Alla fermata della metro ti confermano che c'è sciopero. Sali su un taxi, il dialogo col tassista è agevole, lui parla subito dei mali della città, la sua tesi è che sia il telefonino a rubare tempo alla gente, a costringerla a ritmi accelerati e spossanti. Ti chiede la tua origine. Quando dici che sei nata a Roma, sembra incredulo, non hai più l'accento franco a qualificarti. Un po' a controcuore, dici una parolaccia per convincerlo. Quello ride, ma torna subito serio e si rimette ad analizzare i disastri urbani. Piazza San Giovanni, te la ricordavi più piccola, Santa Maria Maggiore, te la ricordavi più grande, poi viale Manzoni, poi via Milazzo e Termini. Scendi, sei in anticipo di due ore, ti metti a passeggiare e a guardarti intorno. Non è un caso se vai a sederti in un baretto pieno di immigrati, la cameriera parla slavo con due o tre ragazzoni dall'aria cattiva. Mi cade il libro e uno di loro me lo raccoglie, senza sorridere. Vedo pochi sorrisi in giro. La popolazione romana ha smesso d'essere allegra? O è un tuo ricordo falso che la gente trentanni fa fosse più sorridente? Magari perché lo eri te, che ti immaginavi di cambiare il mondo a modo tuo?

C'è una mamma giovane che viene da qualche paese dell'Africa, tiene in braccio una pupetta riccia e le parla in dialetto romano: « Ma mo' che cciai? Perché piagni? ». Tutti i passanti attaccati al cellulare, tu fai finta di leggere il tuo libro, i marciapiedi sono sporchissimi, la sedia è scomoda, ma ti senti tranquilla, non ti guarda nessuno, sei persa e anonima e va bene cosi'.

Tua madre ti aveva messo in guardia, attenta! intorno alla stazione c'è la feccia, ti strappano la borsa, magari ti accoltellano. Non è l'impressione che hai, ma tiri la lampo e sistemi la borsa sotto l'ascella. La stazione è tanto più grande, ma ti dirigi facilmente, trovi subito il binario, il treno veloce è pulito e in tre ore sei a Milano. Hai visto passare Firenze, le crete senesi, il paesaggio ondulatissimo, verde e di tutti i toni del giallo. Quando viaggiavi in Francia potevano passare ore senza vedere case e abitanti, qui l'habitat è diffuso, continuo. Bologna, vedi una torre dal finestrino. Degli Asinelli? Della Garisenda? Chissà. Ci tornerai e ti fermerai a passeggiare nella città. Questo pensiero ti ha accentuato il sorriso. La tua vicina di sedile ti sorride di ritorno, ma con l'aria interrogativa, il cellulare puntato contro di te, come un'arma. Non c'è niente da spiegare, signora mia, accetta i comportamenti leggermente eccentrici e pensa quello che vuoi.

A Milano vai dritta al metro, come ti ha spiegato la tua amica, che ti aspetta a Porta Genova. Anni e anni a vedersi nel tuo luogo d'esilio, lei cercava di spiegarti l'Italia, la piaga della mercificazione universale, le ondate di immigrazione e le risposte razziste o ecumeniche. Ora ascolti un giovane indiano parlare in milanese stretto, ti pare un miracolo e sorridi ancora. I Navigli, con un locale dietro l'altro, masse di giovani che stanno seduti al sole, che camminano veloci o sfrecciano con i motorini, tutti col telefonino appiccicato all'orecchio. La spalletta leonardesca massacrata da un'assessora ignorante che, trovandola vecchia e rovinata, ci ha messo delle linde piastrelle da bagno. Fortuna che un comitato di quartiere l'ha fermata. La diga, il ponticello e finalmente la casa di ringhiera che hai immaginato senza poterla mai vedere. Eccolo, il luogo della tua amica. Ritrovi carattere e specificità nelle sue cose, conosci il suo gatto, guardi i muri pieni di bei disegni, si sente che lei ha girato il mondo e ha tessuto trame amplissime, ritrovi il suo essere funzionale e nello stesso tempo pronta all'eccentricità, che bella sensazione stare a casa sua, dormire accanto alla finestra con vista sui tetti, ti scende dentro una tranquillità che è come una carezza.

Al mattino si parte per la casa di campagna di un'altra amica. Festeggiamo i suoi sessant'anni, approfittando che è in Italia tra due spedizioni in Pakistan, medico senza frontiere da una vita.

Una cinquantina di persone, ne conosci tante e tante ti sono sconosciute, ma l'atmosfera è magnifica, distesa e affettuosa. Ritrovi gente che non vedevi da più di trent'anni, altra che è passata regolarmente a trovare « gli esiliati » mantenendo fedelmente il contatto, ti domandi oziosamente perchè, non trovi la ragione, ma non è importante, c'è un volersi bene che non ha bisogno di spiegazioni. C'è anche una tua amica parigina, commossa come te di essere nel posto dove si riannodano le vite, e c'è anche una ex-amica che non ti vuole bene e a cui non vuoi più bene, la tua freddezza è spontanea come il sorriso che dedichi agli altri, hai l'impressione di stare nel giusto, niente ipocrisie, nessun obbligo di « cercare di capire ». Lo hai fatto per tanto tempo, ora ti riposi.

Gran bevute, gran mangiate, gran balli, e tutto resta pulito e ben organizzato. I più giovani di turno al vecchio lavatoio a lavare piatti e bicchieri, il compagno pizzaiolo che sforna e sforna. Tutti hanno portato cibi in abbondanza, le tavolate si formano e si sciolgono, tutti passano da una sedia all'altra, per un po' d'intimità con tutti, i maschi più nella discussione politica, noi donne ci cerchiamo più nel cuore. Passeggiata al torrente, la campagna intorno alla casa è uno splendore di verde, fragole e lamponi selvatici, i cespugli annunciano le more, l'orto è tenuto esemplarmente.

Stai bene, stai in fase. Forse perchè eri riuscita a non farti aspettative, mesi ad ammonirti contro il ritrovare, t'eri chiusa in casa per questa fatica, occorreva star bene attenti a non cercare il passato, dirsi che quella terra era andata avanti senza di te, come tu senza di lei, e che vi sareste forse incontrate di nuovo solo se tu non esigevi niente, se accoglievi i cambiamenti come naturali.

Ora sorridi sotto un'acacia, guardi questa gente cara e ti senti fortunata. Di essere viva, di averli sempre per amici, e di avere anche un altro mondo che ti aspetta, con i figli nati altrove, e i figli dei figli che bisogna insegnargli l'italiano, tanti amici affezionati anche là, strade che ti hanno accolto più o meno rudemente, ma che comunque hanno tracciato la tua vita.


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