Nomen ignomen

I dittatori al tramonto dopo la cosiddetta 'primavera araba', condividono almeno un paradosso, quello dei loro nomi.

Assad, si chiama il macellaio di Siria, cioè "il leone". Ma è un leone che sbrana il proprio popolo, i propri figli.
Così lo rappresenta anche la vignetta di Mahjoob:

Gheddafi, lui si chiama Muammar: in arabo "il costruttore".
Ha distrutto la Libia e fino all'ultimo annuncia nuovi disastri, la volontà di lasciare solo terra bruciata al nemico.

In Yemen, l'uomo al comando che ha diffuso la corruzione si chiama Saleh.
Che significa… "il riformatore"!


E il dittatore della Tunisia, lui portava il dolce nome di Zine, che nella lingua del profeta vuol dire "il bello", "il gentile".
Una bontà che è oggi superfluo commentare.

Infine quello che ha saccheggiato le ricchezze dell'Egitto: Mubarak.
Termine che designa la 'baraka', cioè "la fortuna", il "bendiddio". Ma da prendere, non da offrire.

Raffigurare i capi di stato caduti nella pattumiera della storia è ormai quasi rituale.

Così l'iraniano shourabad fa precipitare Mubarak nel bidone che contiene i due grandi nemici della Repubblica Islamica dell'Iran, l'irakeno Saddam Hussein e lo Shah di Persia Reza Pahlavi, entrambi defunti.

Mentre l'arabo Mahjoob presenta il ripulisti come una rivendicazione civica:
"Tenete pulito il vostro paese", buttate "la dittatura" nella "pattumiera della storia".
Tra i commenti: 'non ci basta mica un bidone, ci vuole un container!'.

Ed è un rituale pubblico, festoso, burrascoso o scaramantico, ma ormai confezionato a misura di media e pianificato nelle public relations delle guerre, soprattutto l'abbattimento delle statue che si inscena al cambio di regime.

Colpite da una damnatio memoriae che segna simbolicamente la fine del capo, quelle statue restano un luogo di memoria istituzionale.
È una memoria del presente: il loro abbattimento, che rimane fissato in immagini, sarà seguito dall'erezione di nuove statue, attuali.

Quali nuove statue stiano sorgendo, ce lo dice ancora Mahjoob senza parole:

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