Passaporto 11333

Otto anni nella CIA

Era intestato a Manuel Aurelio Antonio Hevia Cosculluela, il titolo di viaggio numero 11333, rilasciato dal Ministero degli esteri uruguayano nel 1970.
Il nome del titolare era vero, lui però era cubano. Con una particolarità: lavorava per il servizio segreto statunitense. Era la CIA che l'aveva inviato in missione in Uruguay, dove, nascosto da una attività di copertura, collaborava con le autorità politiche, militari e di polizia. Per questo gli avevano dato il passaporto.
La seconda particolarità, ignorata però da nordamericani ed uruguaiani, era che il cubano agiva come un convinto agente del suo paese. Nella Cuba degli anni '60, fresca di rivoluzione e letteralmente assediata dagli Stati Uniti per i quali l'isola 'comunista' a poche miglia dalle proprie coste era (ed è ancora!) un insopportabile dito nell'occhio, si era lasciato reclutare dai nordamericani.
'Pasaporte 11333 - Ocho años en la CIA' è così divenuto il titolo del libro di memorie col quale lo stesso Hevia Cosculluela narrò in prima persona, una volta ritiratosi sull'isola, la sua esperienza di doppia infiltrazione in Uruguay.
Il libro fu pubblicato nel 1978 a Cuba, dalla Editorial de Ciencias Sociales, La Habana, ed ebbe alcune riedizioni negli anni 80 in Messico ed in Uruguay. Le sole traduzioni conosciute erano destinate al pubblico dei paesi del blocco socialista: in tedesco, pubblicata nella Germania dell'Est (RDT) dalle Edizioni militari (Militärverlag), in russo ed in slovacco.
Un testo quasi irreperibile, che la Pattumiera della storia, dopo lunghe ricerche tra antiquari austro-argentini, si pregia di offrirvi.
Non lo troverete altro che qui:
in spagnolo nell'edizione di Liberaciòn Nacional del 1985 (una formula editoriale adottata dal MLN-Tupamaros, come ricorda Edmundo Canalda in un'intervista) e in tedesco:





Manuel Hevia Cosculluela, rientrato dagli Stati Uniti, dove aveva studiato poiché il padre, funzionario cubano, vi risedeva, occupò diverse cariche nella nuova amministrazione che rimpiazzò quella del dittatore Fulgencio Batista deposto dalla rivoluzione cubana nel 1959, entrando in contatto con vari diplomatici tra cui quelli uruguaiani.
Nel suo libro, racconta di come vennero tessuti i rapporti che lo portarono a passarsi per esule cubano, e dei mesi passati tra la fauna 'sottoproletaria' dei candidati all'esilio presso l'ambasciata uruguaiana e della corruzione che vi regnava, fino alla partenza e alle prove della 'macchina della verità' cui lo sottoposero i reclutatori della CIA.
Si addentra poi nella storia interna uruguaiana di quegli anni, cioè la situazione in cui si trovò ad operare dopo il suo arruolamento nel 1962; benché non sia sempre facile cogliere i riferimenti specifici e seguire le dinamiche tra le fazioni politiche e i loro intrecci con i diversi apparati statali che descrive, la missione statunitense di cui faceva parte mirava essenzialmente a ricostituire e controllare tutta la rete di polizia ed intelligence, eliminando gli ufficiali troppo nazionalisti.

L'Accademia della tortura
Ma del libro, è soprattutto quanto raccontato nell'ultimo capitolo ad aver avuto eco e diffusione.
Cosculluela vi narra del suo incontro con Dan Anthony Mitrione, nome di un agente statunitense che divenne famoso quando lo rapirono i Tupamaros, i guerriglieri urbani del Movimento di Liberazione Nazionale (MLN-T). Mitrione era stato poliziotto a Richmond, nell'Indiana, poi nella polizia federale FBI ed infine nella CIA, per la quale era in missione in Sudamerica.
Dopo alcuni anni passati in Brasile, arrivò in Uruguay ad organizzare e dirigere una vera e propria scuola della tortura.
In segreto, ovviamente, ciò che rende la testimonianza di Cosculluela particolarmente importante.
Testimonianza che ripeté pubblicamente, come si vedeva in un raro video purtroppo rimosso da YouTube a pretesto di lesioni del copyright; questo qui è un estratto da un servizio televisivo che lo cita, finché dura...:
Il video è stato senz'altro ripreso a l'Avana nel 1978, in occasione della presentazione del libro all'XI Festival Mondiale della Gioventù, di cui dettero notizia il New York Times del 5.8.1978  (qui il testo) e La Vanguardia del 7.8.1978.
Cosculluela ricorda al pubblico del Festival la scuola di tortura dove Dan Mitrione spiegava i concetti mostrandone l'applicazione pratica su uomini e donne catturati per strada, sottoproletari senza legami usati come cavie, straccioni che si potevano uccidere dopo l'uso senza temere conseguenze.
Ripete alcune nozioni del professore di tortura Mitrione, che insegnava agli sbirri come impartire "un dolore preciso, in un punto preciso e nella dose esattamente necessaria".
E le cavie umane che usava non venivano interrogate, e non capivano neppure perché mai dovessero morire di tali atrocità.
È ciò che si legge nell'ultimo capitolo di Passaporto 1133, che vale la pena conoscere.
Questa ne è la traduzione in italiano, un'altra primizia:
Dan Anthony Mitrione
All'inizio del 1970 Cantrell mi dette appuntamento a casa sua al fine di comunicarmi la sua prossima partenza per Washington, dovuta alla sua nomina ad un nuovo incarico. Parlammo a lungo della situazione in Uruguay e della mia in particolare.
Il nordamericano prevedeva che io potessi al massimo restare ancora un anno a Punta del Este. Già molti membri dell'apparato parallelo e della Direzione di Informazione ed Intelligenza conoscevano le mie vere funzioni, e alla lunga queste cose trascendono, cosa che non mi avrebbe permesso di continuare nella Sezione Politica.
Cantrell considerava tre alternative. Se avessi desiderato ritornare negli Stati Uniti, non avrei avuto alcun problema ad ottenere, trascorso il tempo necessario, la cittadinanza, e nel frattempo la CIA si sarebbe incaricata di mantenermi in attività. Se avessi deciso di restare in Uruguay, avrei potuto continuare nell'ambiente gastronomico, benché per contare sull'appoggio del "nostro programma" e continuare a lavorare con la Sezione Politica avrei dovuto abbandonare Punta del Este, dove sarei stato rimpiazzato da qualcuno non 'bruciato'.
La terza variante consisteva anche nel restare in Uruguay, dove la situazione economica continuava a deteriorarsi, e ritornare al mio antico incarico con la Missione, conservando però i legami col "nostro programma". Loro mantenevano ottimi rapporti con il nuovo capo della Divisione di Sicurezza pubblica, Dan Mitrione, che aveva sostituito Saenz qualche mese prima.
Infine restava la mia alternativa, quella per la quale ho potuto poi scrivere le mie memorie: prendere contatto, sempre in Uruguay, con un altro agente della Sicurezza cubana, che pure era stato reclutato dalla CIA per fare dello spionaggio in quel paese.
Di Mitrione sentii parlare per la prima volta pochi giorni prima della partenza di Saenz. Cantrell era molto soddisfatto. Confidava di poter realizzare un lavoro molto più efficace ora che si sbarazzava dell'instabile Assessore Capo. Conosceva superficialmente il sostituto, ma rimase molto impressionato dalla sua storia, per le rilevanti prestazioni che aveva dato in Brasile.
Nello stesso periodo conobbi anche il sostituto di Cantrell, il signor Richard Martinez, che era un meticcio del New Mexico, e che da quel momento sarebbe stato il mio nuovo capo.
La partenza di Noriega fu molto più precipitosa, appena prima che divenisse di dominio pubblico la notizia della centralina telefonica clandestina, con cui si spiava l'Ambasciata dell'Unione Sovietica e le altre sedi diplomatiche del quartiere Pocitos. Quando Noriega lasciò il paese, c'erano già indizi che i sovietici sospettavano qualcosa. La centralina era stata collocata da tecnici della Sezione Politica e messa a punto dagli uomini dell'apparato operativo ai suoi ordini.
Senz'altro Juan [Noriega] era divenuto trascurato, poiché aveva agito senza copertura e quindi annichilito le attività future. Tutto il personale utilizzato era nordamericano, con la sola eccezione di Lemos Silveira. Questo compito era stato classificato top secret, tanto che anche il sempre ben informato Bardesio seppe solo che Lemos stava realizzando un lavoro di grande importanza.
Anche Bernal stava per andarsene. In meno di un anno venne rinnovato tutto il personale yankee della Missione. Erano rimasti quattro anni in Uruguay, e i loro nomi apparivano troppo spesso nelle accuse della stampa progressista: erano bruciati.
All'inizio vedevo poco Martinez, che era occupato ad ambientarsi. D'altronde io ero ben occupato a Maldonado. La stagione era stata pessima, ed ero sul punto di chiudere, malgrado il considerevole sostegno di un commerciante vicino. Eravamo indebitati, e non volevamo continuare ad abusare della generosità di quell'amico. D'altro canto io consideravo compiuta la mia missione e pensavo di ritornare a Montevideo.
Personalmente non avevo problemi economici, col solo limite di non poter giustificare le entrate che venivano dalla CIA. Solo in una occasione, disobbedendo a Cantrell, liquidai un debito d'affari per poter continuare l'avventura del ristorante.
Martinez mi accompagnò infine ad incontrare Mitrione, col quale passai circa due ore. Mitrione mi spiegò quali sarebbero state le mie funzioni, allargando il discorso su cambiamenti da fare nel metodo e nell'approccio.
Dallo sviluppo di quella conversazione e da ulteriori chiacchiere con Martinez risultava ovvio che i nordamericani consideravano conclusa la prima fase del loro lavoro in Uruguay. La Direzione di Informazione e Intelligenza era stata consolidata, anche Otero era stato eliminato. L'infiltrazione ed il dominio della Questura di Montevideo e del Ministero dell'Interno erano soddisfacenti.
Fino a quel momento, erano stati fatti sei corsi di formazione e s'erano poste le basi per la penetrazione nell'interno del paese. I programmi di costruzione di una rete di radiocomunicazioni erano avviati. Gli uomini della prima tappa erano bruciati e di conseguenza erano stati rimpiazzati.
Quanto a me, potevo ancora assumere funzioni importanti nella Missione a condizione di non espormi e non dare nell'occhio. Martinez non avrebbe rimpiazzato solo Cantrell, ma anche Bernal, fino alla venuta del suo sostituto. Quando questi arrivò, Martinez conservò, oltre alla sezione Investigativa, anche quella della Formazione, che passava così sotto il controllo diretto della CIA.
Si decise dunque il mio ritorno alla Missione. Benché lo avessi già conosciuto, Bernal mi accompagnò all'ambasciata per presentarmi Mitrione. Equivoci del genere furono una costante di quel periodo. Parlammo dieci minuti in presenza di Cesare e studiammo la possibilità del mio ritorno agli uffici della Questura. Nei giorni precedenti l'ammutinamento ebbi un'altra conversazione con Mitrione. Egli mi spiegò che il cambiamento di metodo esigeva che gli assessori [consiglieri CIA] si facessero vedere il meno possibile in Questura.
Mi mise a dirigere la Missione in quel contesto, col compito di cooperare con Martinez ai corsi, di ricevere i funzionari di polizia e di fungere da suo rappresentante nei loro confronti.
Il nuovo assessore si riservava come compito principale l'addestramento di ufficiali e poliziotti scelti alle tecniche di interrogatorio dei prigionieri politici. Da Cantrell sapevo che quella era stata la sua attività principale in Brasile. Mitrione avrebbe diretto personalmente l'addestramento speciale, perciò non si sarebbe svolto nei locali della Questura. Certo avrebbe visitato regolarmente gli uffici dell'Intelligenza (Servizi segreti) e le celle dei politici per monitorarne l'applicazione pratica.
Avevamo ottenuto una casa a Malvin, che riuniva i requisiti minimi: un piano cantina che si poteva adattare ad anfiteatro, con isolamento sonoro, il garage con accesso interno e una certa distanza dal vicinato.
A partire da quel momento Mitrione cominciò a trasformarsi e addirittura convertirsi in un perfezionista che verificava tutto di persona. Fino ai dettagli dell'installazione elettrica! Ritornammo però un'altra volta alla casa. Dovevo mettere un giradischi a tutto volume in cantina -gli piaceva la musica hawaiana- mentre lui restava seduto nel soggiorno, ma fu soddisfatto perché non aveva sentito nulla. Eppure non bastava. Dovetti pure sparare con una Magnum.
-Bene, molto bene- disse. Neanche stavolta non aveva potuto percepire assolutamente nulla.
-Ora resta tu, mentre io vado in cantina.- E così all'infinito.
Il corso speciale venne condotto con gruppi di non più di una decina d'alunni. Il primo gruppo fu costituito con vecchi agenti, di merito riconosciuto, ora assegnati alla Direzione di Informazione ed Intelligenza. Per il secondo si selezionarono ufficiali diplomati all'Accademia di polizia di Washington, e vennero riservati quattro posti per le questure di Cerro Largo, Maldonado, Rivera e Salto. Da quest'ultimi candidati non si esigeva la condizione di laureati dell'Accademia, ma che avessero partecipato ad alcuni corsi di formazione offerti dalla Missione, e che i loro test psicologici fossero stati aggiornati.
Richard Martinez era incaricato di completare l'iscrizione del terzo corso speciale con membri dell'apparato parallelo. Si parlò della futura partecipazione di ufficiali delle Forze Armate uruguayane, e per questo v'era già un coordinamento tra la Missione Militare e la CIA, ma non s'era ancora trovato il modo di portare l'istruzione a quel settore.
Comunque alcuni militari interessati a quel perfezionamento culturale e professionale mossero alcuni contatti ed ottennero di essere inclusi nel primo gruppo. Fu in particolare il caso del colonnello Buda. Anche il colonnello Hontos e un tal De Michelis, tenente colonnello, ottennero l'iscrizione al primo gruppo, ma per qualche ragione furono poi sostituiti da un capitano di Paysandu ed un altro ufficiale dell'interno.
I corsi cominciarono da tematiche connesse: anatomia e descrizione del sistema nervoso umano, psicologia del profugo e psicologia del detenuto, profilassi sociale -non son mai riuscito a capire in cosa consistesse, e la considero un elegante eufemismo per evitare una denominazione più grave-, eccetera.
Le cose presero presto un tornante sgradevole. Come soggetti delle prime prove pratiche c'erano quattro accattoni -chiamati bichicomes in Uruguay- abitanti della periferia di Montevideo, e una donna proveniente dalla zona di frontiera col Brasile. Non ci fu interrogatorio ma una dimostrazione dell'effetto dei diversi voltaggi sulle parti del corpo umano, come pure dell'uso di un emetico -non so perché né a che fine- e di diverse sostanze chimiche.
I quattro morirono.
Nel corso di questa prima prova l'ufficiale Fontana fu allontanato dal corso, e come spiegazione venne addotto l'arrivo dei militari, mentre lui era annunciato al corso seguente. In realtà Fontana aveva lo stomaco debole. Chi lo avrebbe mai detto, proprio Fontana, il terribile torturatore dei tempi di Otero.
Però sapeva bene perché era stato allontanato, ciò che accadeva ad ogni lezione era in sé nauseante. Ciò che dava un aspetto irreale, di particolare orrore, era la fredda e misurata efficienza di Mitrione, la sua vocazione didattica, la sua attenzione ai dettagli, la precisione dei suoi movimenti, la pulizia e l'igiene che esigeva da tutti, quasi fossero nella sala chirurgica di un ospedale moderno.
Insisteva sull'economia dello sforzo, così la chiamava. Nessun gesto inutile. Nessun movimento fuori luogo. Per l'ammorbidimento c'era la sessione precedente. Ogni azione doveva mirare al risultato finale di ottenere informazioni. Lo infastidiva il piacere con cui Buda manipolava i genitali maschili.
Il linguaggio volgare di Macchi gli appariva scioccante: "Commissario -gli segnalava- è più opportuno riferirsi a quelle parti col loro nome corretto. La pregherei di mantenere la degna disciplina del buon funzionario di polizia."
Nell'ambito dei corsi si discuteva pure degli interrogatori che gli allievi portavano a termine in Questura, e si segnalavano errori e successi. Gradualmente le lezioni nella casa di via Rivera avevano raggiunto, in quell'atmosfera da clinica asettica, un livello di mostruosità insopportabile. Col tempo giunsero ad effettuarvi dei veri interrogatori. (Descrivo solo quelli della pratica, preferendo non riferirmi a quelli reali.) Per fortuna dovetti presenziare a solo due di questi veri interrogatori. I miei viaggi da Maldonado a lì valevano come impedimento. D'altronde già da un po' di tempo mi occupavo di altre faccende.
Nell'umido inverno uruguayano del 1970 ebbi la rara opportunità di gettare uno sguardo oltre la barriera di laconicità di Dan Mitrione. Ero arrivato un po' in ritardo da Maldonado e, invece di dirigermi all'ambasciata, lo chiamai a casa sua. Mi chiese di andare da lui.
Ci sedemmo uno di fronte all'altro in una saletta della sua accogliente residenza. Ancora oggi non conosco il motivo per cui mi chiese di fargli visita; per tre ore ci limitammo a bere qualche bicchiere ed a conversare sulla sua filosofia di vita.
Mitrione considerava l'interrogatorio come un'arte complessa. Dapprima si doveva eseguire la fase di ammorbidimento, con le botte e le umiliazioni usuali. L'obiettivo consisteva nell'umiliare il prigioniero, fargli comprendere la sua condizione di indifeso, disconnetterlo dalla realtà.
Niente domande, solo botte ed insulti. Poi, esclusivamente botte in silenzio.
Solo dopo tutto questo veniva l'interrogatorio.
Qui non si doveva produrre nessun dolore diverso da quello provocato dallo strumento che si sarebbe usato.
-Dolore preciso, in un punto preciso, nella dose precisa scelta per l'effetto.
Durante la sessione si doveva evitare che il soggetto perdesse tutta la speranza di vivere, poiché questo potrebbe portarlo ad intestardirsi.
-Si deve sempre lasciargli una speranza (...) una luce remota.
-Quando si raggiunge l'obiettivo, ed io lo raggiungo sempre- mi diceva -può essere opportuno continuare un po' la sessione o applicargli un altro ammorbidimento, ma non più per estrarre informazioni, ma come arma politica di avvertimento per creare il sano terrore di interferire con attività dissociative.
Poi mi espose come, all'accogliere un soggetto, la prima cosa da farsi era determinarne lo stato fisico, il suo grado di resistenza, e questo mediante un esame medico esaustivo.
-Una morte prematura- sottolineava -significherebbe il fallimento del tecnico.
Un'altro aspetto importante era il conoscere esattamente fino a dove si poteva arrivare in funzione della situazione politica e della personalità del detenuto.
Dan continuava come allucinato, aveva trovato in me quell'udienza di cui aveva bisogno. E continuava: -È importantissimo sapere se possiamo permetterci il lusso che il soggetto muoia in anticipo.-
Fu l'unica volta in cui, in quei mesi, i suoi occhi di plastica espressero un luccichio. Infine concluse:
-Però prima di tutto: efficienza. Causare solo il danno strettamente necessario, non una punta di più. Non lasciarsi prendere dall'ira in nessun caso. Agire con l'efficacia e la pulizia di un chirurgo, con la perfezione dell'artista. Questa è una guerra a morte. Quella gente è mia nemica. Questo è un duro lavoro, e qualcuno deve farlo, è necessario. Visto che è toccato a me, lo farò alla perfezione. Se fossi un pugile, tenterei di essere campione del mondo, ma non lo sono. Ciononostante in questa professione, la mia professione, sono il migliore.
Fu la nostra ultima conversazione. Prima di partire vidi Dan Mitrione ancora una volta, ma non avevamo più nulla da dirci.
L'Avana, giugno 1972
Il cubano e i tupas
Il sequestro di Dan Mitrione intervenne il 31 luglio 1970, poco dopo l'ultimo incontro rievocato da Hevia Cosculluela alla fine del capitolo. Probabilmente pochissimo tempo dopo, poiché nel libro l'agente cubano fa riferimento all'"umido inverno uruguaiano", che nell'emisfero sud corrisponde ai mesi dell'estate dell'emisfero nord.
Non è impossibile, che Manuel Hevia Cosculluela abbia segnalato ai Tupamaros la figura di Dan Mitrione, ma assai improbabile.
Certo è che lo fece in un'altra occasione, quando confermò a Mauricio Rosencof, uno dei dirigenti tupas, che il fotografo della polizia Nelson Bardesio era un dirigente degli Squadroni della morte (organizzazione extralegale, il cui programma è riassunto nel nome, che oltre a civili comprendeva anche commissari di polizia, capitani della Marina e pure un professore vice-ministro dell'interno. Rosencof ricorda che avevano ricevuto un tentativo di contatto da un agente cubano, ma non si fidavano, poteva essere "carne avariata", un tentativo di infiltrazione, e rifiutarono. Ma a Cuba, dove Manuel Hevia, tornato dalla lunga missione, era parcheggiato "in frigo", i Tupamaros avevano una rappresentanza con cui si stabilì il contatto.
E fu lo stesso Rosencof che, dopo aver incontrato in Cile il Presidente Allende ed essere ricevuto a l'Avana da Fidel Castro, parlò infine direttamente con Manolo Hevia, che gli disse di Bardesio.
Rientrato a Montevideo, interrogò Bardesio il quale era stato preso e portato dai Tupamaros nel 'Carcere del popolo'; Bardesio era un uomo di punta del William Cantrell di cui parla il libro di Hevia, e ammise tra l'altro che il Dipartimento di Informazione e Intelligenza (DII) serviva da copertura allo Squadrone della morte (cfr CounterSpy, April - May 1979), ma venne rilasciato intonso e pulito, l'obiettivo dell'operazione essendo la raccolta di informazioni.
Ciò accadeva però nel 1972, due anni dopo la cattura e l'uccisione di Mitrione.
Che nel 1970 ai Tupamaros fossero giunte o meno delle informazioni, precise o generiche, da parte del cubano, non fu determinante per la decisione di prendere l'agente americano.
Altrimenti detto, l'Americano non fu sequestrato, portato nel carcere del popolo e giustiziato in quanto torturatore.
Da un lato, Dan Mitrione dirigeva la missione locale dell'USAID, ed in particolare il programma dell'Office for Public Safety (OPS), questo era noto e già bastava. Raul Sendic, massimo dirigente dei Tupamaros intervistato dal New York Times nel giugno 1987 dirà che all'epoca la polizia antisommossa formata da Mitrione aveva ucciso dei manifestanti.
Dall'altro, il sequestro era parte di una campagna, detta "Los chanchos" (i porci), operata dai Tupamaros, che mirava a personalità e diplomatici (come in molti altri paesi nel corso dello stesso 1970, vedi Algeri porto delle rivoluzioni 4), quali il console brasiliano Aloysio Dias Gomide e il consigliere statunitense Claude Fly, messi nel 'carcere del popolo' assieme a Mitrione.

L'Amerikano
La questione della tortura non fu dunque decisiva per l'azione; ebbe invece gran rilievo in seguito, in particolare dopo l'uscita del film di Costa-Gavras "L'Amerikano", girato in Cile prima del golpe di Pinochet, che mise in scena sia il sequestro che le attività di Dan Anthony Mitrione, rappresentato dal personaggio di Philip Michael Santore, interpretato da Yves Montand.
La scuola di tortura mostrata nel film (nelle immagini alcuni fotogrammi) era ambientata, anche se ambiguamente, in Brasile, non era quella narrata da Hevia Cosculluela; le scene sono mostrate in relazione all'interrogatorio di Santore, che come Mitrione aveva in precedenza operato in Brasile, cui i rapitori chiedevano se avesse saputo delle torture.
Ciò corrisponde in gran parte ai veri interrogatori di Dan Mitrione, resi pubblici dai Tupamaros che non conoscevano la sua specialità di maestro di tortura, come emerge da questa trascrizione:
Il Tupamaro che interroga parla di Sergio Fleury, il più famoso torturatore brasiliano (e assassino di Carlos Marighella), dicendo che era venuto una volta a Punta del Este (in Uruguay), dove non erano riusciti a beccarlo, e che lo farebbe fuori volentieri. Un discorso che avrebbe senz'altro avuto altri toni se l'interrogatore fosse stato cosciente che Mitrione era effettivamente istruttore in torture.
Nello stendere la sceneggiatura del film, Constatin Costa-Gavras e Franco Solinas si basarono su materiale fornito dagli stessi tupas, ed ebbero in particolare accesso ad un rapporto segreto steso da Miguel Angel Benitez, un vice-commissario di polizia che era anche un militante del MLN-Tupamaros.
Il Rapporto Benitez rivelava la responsabilità di Mitrione nell'aumento delle torture poliziesche; "Nessuno l'ha mai visto torturare un prigioniero personalmente, ma ha diretto alcuni interrogatori." I poliziotti dei servizi di intelligenza raccontavano al quartier generale un episodio che lo caratterizzava. Un giorno si vide arrivare un dirigente del sindacato dei bancari, arrestato durante uno sciopero. Lui osservò in silenzio l'atteggiamento arrogante che questi teneva di fronte alla 'gente comune del dipartimento' e suggerì il metodo che che le guardie avrebbero dovuto applicare per fargli perdere la calma e piegarlo. Dovevano svestirlo e forzarlo a restare in piedi contro un muro. Poi un poliziotto giovane gli si sarebbe messo dietro per sfotterlo e umiliarlo. In seguito sarebbe stato chiuso in cella senza bere né mangiare. Dopo tre giorni gli si sarebbe passato un recipiente con acqua mischiata ad urina…
Quanto sostenuto da Benitez nel suo rapporto, pubblicato nel 1973 come appendice al film (indicato quale 'rapporto dell'agente X'), venne confermato in qualche dettaglio da prove materiali: ad esempio l'affermazione che Mitrione avesse fatto venire dagli Stati Uniti per valigia diplomatica un tipo di apparecchio con aghi elettrici molto fini -tanto che si potevano inserire tra i denti del torturato- per rimpiazzare quelli molto rudimentali in uso, provenienti dall'Argentina.
Ma siamo di nuovo a due anni dai fatti.
Se tutto ciò non era emerso al momento della morte di Dan Mitrione, come si spiega che venne da subito indicato come torturatore?

Memoria, vittime e storia
La domanda ha una qualche rilevanza quando si pensa che anche tra ex-guerriglieri vive ancora la memoria che vuole l'agente statunitense giustiziato in quanto torturatore.
Un piccolo fatto può spiegare la discrepanza tra memoria e storia.
Immediatamente dopo l'esecuzione di Mitrione, il 10 agosto 1970, il commissario uruguaiano Alejandro Otero rilasciò un'intervista al Jornal do Brasil (Latin america 4 n.34 august 1970; 272 ). Egli era stato il capo della Direzione di Informazione e Intelligenza, e disse che ne era stato estromesso perché 'in disaccordo con Mitrione', il quale aveva introdotto metodi violenti di repressione e tortura nei confronti dei Tupamaros che, secondo lui, avevano fin'allora fatto ricorso alla violenza come ultima risorsa. L'ondata di attacchi sarebbe stata provocata proprio dalla linea dura introdotta da Mitrione.
Con quell'intervista Otero riuscì a farsi passare come il 'poliziotto buono', quello che usava metodi investigativi alla Sherlock Holmes, senza violenza. A dispetto del fatto che sotto il suo comando si praticasse la tortura; proprio l'ultimo capitolo di Pasaporte 11333 sopra tradotto ricorda il torturatore Fontana, uno dei suoi uomini, e già ai tempi tre militanti arrestati, Julio Marenales, Carlos Rodríguez Ducós e Leonel Martínez Platero denunciarono al giornale Extra di essere stati torturati proprio da Otero in Questura, come ricorda l'ex dirigente tupamaro Jorge Zabalza (Una historia que no es cuento, non pubblicato).
Le sue dichiarazioni causarono imbarazzo al governo uruguaiano, che si preparava a commemorare coi massimi onori la vittima del "crimine infame che è costato la vita a un cittadino di un paese tradizionalmente amico". Fu stampato anche un francobollo, e posta una lapide nel Municipio di Richmond, Indiana, città di Mitrione. Li, a sostegno della sua famiglia, che contava nove figli, vennero Frank Sinatra e Jerry Lewis ad esibirsi in un concerto.
Frank Sinatra with Mitrione's family
L'immagine di un "eroe silenzioso", nelle parole di Pacheco Areco, Presidente del Governo, di un "uomo dedito alla causa del progresso pacifico in un mondo ordinato" in quelle del portavoce di Nixon, è incompatibile con quella di un "torturatore".
Nella costruzione di una memoria pubblica il ruolo di vittima può avere, come in questo caso, una funzione determinante.
La "vittima" rimanda necessariamente al "carnefice", è una coppia di opposti, non si può approvare qualcuno nei due ruoli insieme. E l'approvazione dei ruoli dal parte di un largo pubblico può pesare molto nella formazione di una memoria collettiva.
Nel discorso pubblico sul caso Mitrione viene messo in crisi lo status di vittima della spia americana. Lo status di torturatore corrisponde quasi per definizione al ruolo di carnefice, e sul piano morale è in misura di battere lo status di eroe sepolto con esequie solenni. 
in memoria ETERNA?
Già senza la connotazione di torturatore, Mitrione era comunemente indicato come agente dei servizi segreti USA, ovvero in un ruolo che gran parte della stampa mainstream europea considerava come minimo disdicevole, ma evitava di parlarne temendo di giustificare sequestro e uccisione. Si rifaceva contro i Tupamaros sostenendo che con quell'atto avevano perso la loro aura di Robin Hood, una critica che attraversò anche la sinistra. Per l'Unità, l'organo del Partito Comunista Italiano, la categorizzazione di spia era sufficiente a titolare in prima pagina, nell'immediatezza della notizia (11.8.1970) "Giustiziato l'agente della CIA prigioniero dei Tupamaros".
por lo común cuando cae un verdugo
un doctor en crueldad, un mitrione cualquiera
los canallas zalameros recuerdan
que deja tres cuatro verduguitos en ciernes

Mario Benedetti, 'Zelmar'
   di solito quando cade un boia
   un dottore in crudeltà un mitrione qualsiasi
   le canaglie ricordano ruffiane
   che lascia due tre quattro boietti in erba
Così scriveva il poeta uruguayo Mario Benedetti nell'esilio del 1976; si tratta una strofa qui arbitrariamente estrapolata dalle tante di 'Zelmar', ma rende l'atmosfera della battaglia di memorie.
Simbolicamente molto chiaro, nella memoria pubblica istituzionale, il cambiamento di nome di una strada a Belo Horizonte, capitale del Minas Gerais, dove Mitrione aveva lavorato, sempre come 'consulente' di polizia, tra il 1960 e il 1967. Nel 1983, dopo la fine della dittatura civile-militare brasiliana e l'amnistia, la via che gli era stata dedicata nel 1971 prese a chiamarsi Rua José Carlos Mata Machado: un giovane comunista, militante dell'Ação Popular Marxista-Leninista (APML) che era stato torturato ed ucciso dieci anni prima.  

Le "tre linee di difesa"
Per le attività, ancorché segrete, di Mitrione in Uruguay, come prima in Brasile e nella Repubblica Dominicana, l'USAID (United States Agency for International Development) non era una semplice 'copertura'.
L'agenzia per lo sviluppo internazionale gestiva il programma di Pubblica Sicurezza il cui obiettivo era fornire assistenza e formazione alle polizie dei paesi in via di sviluppo, perché riuscissero a combattere efficacemente "la sovversione ed il terrore comunista".
Il programma ricevette nel 1962 un impulso decisivo dal presidente John F. Kennedy, che creò e finanziò un organismo semi-autonomo, l'Office of Public Safety (OPS). E fu suo fratello, l'allora Segretario alla Giustizia Robert Kennedy, il principale promotore della conversione delle polizie alleate alla politica di counter-insurgency statunitense.
Al tempo della morte di Dan Mitrione, le missioni del programma di sicurezza pubblica erano installate in 19 paesi dell'America Latina, con 58 residenti stabili.
Di una di queste missioni parla Cosculluela in Pasaporte 11333. In Uruguay, gli obbiettivi del programma comprendevano il rafforzamento delle forze di polizia in aspetti come le comunicazioni, il pattugliamento, l'addestramento, il controllo di agitazioni civili, e la sua completa ristrutturazione in funzione della repressione dei movimenti sociali e di guerriglia, centralizzando le informazioni sulle persone, spostando le prigioni sotto il Ministero dell'Interno ed introducendo le carceri di massima sicurezza.
I maggiori investimenti andavano alla direzione di informazione e intelligenza; e la scuola del suo consigliere capo, Dan Mitrione, insegnava ad ottenere l'informazione, estraendola da un corpo vivente. La tortura -ma secondo manuale, mica brutalo-sanguinaria!- era dunque parte della "prima linea di difesa".
I programmi di assistenza alla pubblica sicurezza avevano il loro contraltare e complemento in quelli di assistenza militare, che politicizzava i militari spingendoli all'intervento nella repressione di agitazioni civili.
Per consolidare una "seconda linea di difesa" è necessaria l'unione di polizia e forze armate nella lotta antisovversiva, obiettivo che si concretizzò in Uruguay nel settembre 1971.
La "terza linea di difesa" secondo questa dottrina antiguerriglia, vedeva il potere assunto dai militari.
Un approfondito studio della storica Clara Aldrighi, El programa de asistencia policial de la AID en Uruguay, racconta in dettaglio i dieci anni 1965-1974 di quell'attività attingendo a fonti declassate dal segreto di stato di archivi americani.  

Nixon boia
Le ricerche d'archivio di Clara Aldrighi hanno portato alla luce numerosi documenti; ancora nel 2010 il National Security Archive pubblicava lo scambio di cablogrammi segreti del 1970 tra il governo USA e quello dell'Uruguay, via ambasciata.
I nordamericani domandavano, per esempio, di offrire l'amnistia a chi avesse collaborato per ritrovare il sequestrato, o di aumentare la somma offerta per chi avesse fornito informazioni.
In prossimità dello scadere dell'ultimatum, l'amministrazione di Richard Nixon, per voce del Segretario di Stato William Rogers, formulò l'esplicita richiesta di minacciare l'uccisione di Raul Sendic e di altri dirigenti Tupamaros detenuti se Dan Mitrione fosse stato ammazzato.
In risposta l'ambasciatore Adair disse che aveva avanzato la richiesta al Ministro degli esteri uruguaiano, il quale, sostenendo che il suo "tipo di governo non permetteva un tal genere di azioni", affermava invece che quei prigionieri erano stati raggiunti dalla minaccia dello Escuadròn de le muerte, che avrebbe ucciso i loro parenti se non liberavano Mitrione.
Insomma lo slogan 'Nixon boia!', rimbombato nelle piazze di tutto il mondo, per essere un cliché era storicamente fondato.

Il Raúl Sendic che Nixon voleva morto era stato arrestato nei giorni del sequestro Mitrione, ed evase un anno dopo, per essere poi ripreso nel 1972.
Dal 1973, con il colpo di stato, la politica di trattare i detenuti come ostaggi divenne effettiva, e Sendic, con gli altri dirigenti Tupamaros Eleuterio Fernández Huidobro, Mauricio Rosencof, Adolfo Wasen, Julio Marenales, Jorge Manera, Henry Engler, Jorge Zabalza e José Mujica, venne rinchiuso in 'luogo sconosciuto', sotto un durissimo regime d'eccezione.
Non processati né condannati, i dirigenti guerriglieri rimasero in ostaggio fino al 1984: sarebbero stati eliminati se l'organizzazione esterna fosse passata all'azione.
Su quegli anni tremendi, Rosencof ha scritto Las mémorias del calabozo, e in occasione della traduzione italiana del bel libro, ne ha parlato con Geraldina Colotti (vedi Le Monde Diplomatique 11.2009).  

Wikileaks e tupas
Non per forza occorre attendere 40 anni per leggere cablogrammi segreti.
Ad accelerare la memoria ci ha pensato Wikileaks, impossessandosi, per renderli pubblici prima della loro scadenza formale, di milioni di messaggi. Nella mole, ne sono emersi alcuni che riguardano uno degli ex-ostaggi della dittatura.
Henry Engler davanti a un murale con Raul Séndic
Henry Engler Golovchenko, dopo essere stato scarcerato nel 1985 andò in Svezia, dove, conclusi gli studi di medicina, si dedicò con successo alla ricerca scientifica, diventando un'autorità nella cura dell'Alzheimer, oltreché direttore del centro di tomografia per emissione di positroni dell'Università di Uppsala, tanto da essere proposto per il premio Nobel.
Nominato professore all'Università della Repubblica nel suo paese, viene incaricato di costruire un centro clinico per applicare la tecnica che ha sviluppato.
E qui intervengono gli statunitensi: al progetto collabora una multinazionale americana, la General Electric, e per cablogramma s'inquietano. L'affare è importante, include lo scambio di tecnologia con prodotti del paese e potrebbe aprire ad altri accordi del genere, ma all'ambasciata non va giù che vi sia un terrorista comunista, per quanto ex, tra i partner uruguaiani.
Engler è descritto come quello che dette l'ordine di esecuzione di Dan Mitrione, un'accusa che viene dai militari fascisti, che lo indicavano come responsabile militare della colonna 15. Lui comandava in realtà un nucleo di cinque militanti, ma alla notizia del tentativo di ingerenza yankee reagisce indignato che pretendano pure di "distinguere tra tupamaros buoni e cattivi. E nel film, io sono il cattivo".
La memoria repressiva, sembra proprio quella che dura di più.  

Una piccola considerazione finale
Gli avvenimenti di cui si è trattato, tutto il racconto di Hevia Cosculluela ed il caso Mitrione, ebbero luogo in un paese dove vigeva un regime democratico parlamentare.
L'Uruguay, chiamato anche "la Svizzera dell'America Latina", aveva gli indici di salute, alfabetizzazione, abitazione ed impiego più alti del continente ed una stabilità proverbiale. Per gli Stati Uniti non rappresentava alcun significativo interesse economico o militare, né v'era una presenza di propri cittadini da proteggere.
La decisione di investirvi con un programma di assistenza dotato di un altissimo e apparentemente sproporzionato numero di 'consiglieri' ed la dottrina di controguerriglia che abbiamo visto, fu dovuta, secondo Clara Aldrighi, all'analisi condotta dagli specialisti in affari uruguaiani del Dipartimento di Stato de della CIA, che prevedevano lo sviluppo di una forte crisi.
E nel regime democratico operavano anche i Tupamaros -che non agirono più dopo il golpe del 1973. Il punto essenziale sembra proprio essere questo: un movimento rivoluzionario che, negando la possibilità di accedere al poter per la via pacifica ed affermando la necessità della lotta armata, esprimeva la sua originalità sviluppando le tattiche della guerriglia urbana e un modo di operare in democrazia. I suoi successi, dalle azioni dette 'mordi e fuggi' ai 'tribunali del popolo' che non mandavano tutti quanti a morte, aprivano le porte all'uso della metodologia guerrigliera in società con grandi concentrazioni urbane -nella capitale Montevideo viveva quasi la metà della popolazione del paese- e l'apporto teorico che li accompagnava aveva echi significativi nella sinistra del nord del mondo, tra i militanti delle metropoli americane ed europee. Si trattava di stroncare l'idea di guerriglia urbana al suo nascere.

Per il rilascio di Mitrione, il MLN-T aveva chiesto la liberazione di tutti i prigionieri politici, che erano 160. Venne rifiutata poiché erano considerati delinquenti comuni e sottoposti alla legge ordinaria. La separazione dei poteri lo impedisce, e significherebbe dare riconoscimento politico ai terroristi.
Quando si sente un argomentario così ipocrita, è bene non crederci, tutto sommato.

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