È arrivato un aereo carico di banditi
Solo pochi mesi prima dell'arrivo ad Algeri di Tim Leary, l'evaso psichedelico, uno sbarco ben più impressionante di prigionieri politici in fuga aveva attirato la stampa internazionale all'aereoporto di Dar-el-Beida.
Il 15 giugno 1970, 40 detenuti erano stati rilasciati dal governo brasiliano, in cambio dell'ambasciatore tedesco catturato in Brasile dai guerriglieri urbani. Ufficialmente, erano 'banidos', cioè messi al bando, secondo una legge che appunto permetteva al regime di espellere i propri cittadini, e che oggi è proibita dalla nuova Costituzione brasiliana.
Una ventina di quegli speciali passeggeri dell'aereo della Varig atterrato ad Algeri, erano militanti della Vanguardia Popular Revolucionaria (VPR), gli altri provenivano da altre organizzazioni di opposizione o rivoluzionarie, come il Movimento Rivoluzionario 8 de outubro (MR-8), che aveva operato il primo sequestro di ambasciatore della storia della lotta armata.
Tra questi 'banidos', figuravano proprio alcuni militanti catturati in seguito a quell'azione: Cid de Queiroz Benjamim, Daniel Aarão Reis, Fernando Paulo Nagle Gabeira e Vera Sílvia Araújo Magalhães.
Il breve passo indietro per inquadrarne la storia ci riporta all'agosto del 1969, poco dopo la fine del Festival Panafricano ad Algeri.
Dall'altra parte dell'Atlantico, a Rio de Janeiro, due gruppi clandestini decisero di tentare un'azione congiunta per liberare dei prigionieri politici e per rompere la censura che il regime dittatoriale imponeva. La sigla MR-8 venne fatta risuscitare, poiché si trattava di un gruppo che era stato decimato poco dopo la sua apparizione, dai militanti di Dissidencia Guanabara (DI-GB), in gran parte giovani, studenti ed intellettuali della classe media, che chiesero sostegno all'ALN, l'Açao Libertadora Nacional guidata da Carlos Marighella e composta da militanti di vecchia tradizione comunista, con esperienza di clandestinità. L'ALN assunse il comando militare dell'operazione, riuscendo a catturare l'ambasciatore degli Stati Uniti Charles Burke Elbrick, e proponendo immediatamente di scambiarlo con 15 prigionieri politici, che dovevano essere portati in Cile, in Algeria od in Messico.
Il clamore fu enorme, il comunicato firmato da ALN e MR-8 venne diffuso, come richiesto, da radio e televisione, e gli stessi prigionieri ne ebbero notizia. Molti anni dopo Jaguar, vignettista ed editore della rivista satirica Pasquim, che era stato incarcerato con la redazione al completo senza un'accusa specifica, ricorderà quel momento con un aneddoto:
"Ero in galera e alle 4 di mattina aprono la porta. Il tizio dice: 'Sentite un po', preparate le vostre cose che sarete scambiati con l'ambasciatore sequestrato dal Gabeira e da non so chi, a voi vi scambiano e partite per l'Algeria entro due ore.' Al che mi alzai e dissi: 'Senta un po', io mi muovo solo a bastonate, mi dovete ammazzare. Cazzo, io sto qua e domani mi ritrovo in groppa a un cammello nel deserto del Sahara, ma andate affanculo!', mi girai dall'altra parte e mi misi a dormire. Fu lì che mi guadagnai il soprannome di 'vegetale'." (intervista alla rivista Universo Masculino)La destinazione fu invece il Messico. Il regime militare-civile brasiliano non volle rischiare di offendere la grande potenza statunitense, che era il suo primo sostenitore ed alleato, e accettò, non senza contrasti, di trasportare i quindici prigionieri richiesti a Città del Messico, dove il 5 settembre 1969 furono accolti da una folla festante.
A Rio, i guerriglieri rilasciarono Elbrick, in buona salute.
La repressione si riorganizzò immediatamente, le sue tecniche, a cominciare dalla tortura, si fecero più scientifiche, ed i risultati ottenuti vantati nella propaganda. Già due mesi dopo riuscirono a localizzare e ad uccidere Carlos Marighella, ed anche i militanti che avevano sequestrato Elbrick vennero arrestati o uccisi.
A narrare dall'interno la vicenda con un libro di successo, dieci anni dopo, fu per la prima volta Fernando Gabeira, che era giornalista e che aveva affittato la casa in cui venne tenuto prigioniero l'ambasciatore USA.
Il suo 'O que è isso, companheiro?' (Che ti succede, compagno?, ed. Feltrinelli, 1981) finisce proprio sull'aereo in partenza per l'Algeria e per un lungo esilio:
Il poliziotto al mio fianco disse che aveva un cugino comunista a Goiàs; gli risposi che avevo uno zio tubercoloso a Minas. Mi chiese dove poteva comprare qualcosa in Algeria. Gli dissi di stare attento alla parola Souvenir, Sou-ve-nir, quando vedeva quella parola poteva fermarsi e comprare. La danza del ventre no, non sapevo se ci fosse, in Algeria. Secondo me, non doveva restarci troppo male se il governo algerino li rimandava diritti all'aeroporto. No, che non si rattristasse, anche all'aeroporto avrebbe potuto trovare la parola souvenir e comprare qualcosa.Il sequestro dell'ambasciatore USA aveva inaugurato una nuova via per liberare i prigionieri politici.
Ad esso seguì, nel marzo 1970 la cattura da parte della VPR del Console giapponese a Sao Paulo, in cambio del quale venne chiesta ed ottenuta la liberazione di 5 prigionieri, che furono trasportati in Messico.
E poi appunto nel giugno 1970 quella dell'ambasciatore tedesco Ehrefried von Holleben, condotta dalla "Unidade de Combate Juarez Guimarães de Brito" (UC/JGB ).
Il modello operativo dell'azione (vedi immagine cartina), con auto che bloccano davanti e dietro il convoglio e con la 'neutralizzazione' della scorta, era ormai stabilito, e venne poi utilizzato dalle Rote Armee Fraktion (RAF) per il sequestro di Hans Martin Schleyer nel 1977 e nel 1978 dalle Brigate Rosse (BR) per quello di Aldo Moro.
Naturalmente la stampa sbraitava contro i terroristi; così apriva l'editoriale del Jornal do Brasil del 13 giugno 1970: "Ancora una vile azione sovversiva ha ferito il Brasile: l'ambasciatore della Repubblica Federale Tedesca è stato sequestrato. E nell'imboscata che gli è stata tesa sono caduti due agenti federali, uno senza vita e l'altro ferito; due brasiliani. Tutta la Nazione si sente colpita."
Da parte loro, i guerriglieri decisero di non applicare più il principio che proporzionava il valore di scambio del prigioniero alla sua 'importanza', e chiesero la liberazione di quaranta detenuti politici.
Vera
Una foto storica ritrae i 40 liberati, con 4 bambini (ancora oggi, certa stampa parla di '44 terroristi'): sulla destra, si vede una ragazza seduta su una sedia.
È Vera Magalhaes, che aveva la parte inferiore del corpo paralizzata a seguito delle torture; nella foto dello sbarco ad Algeri (di Gerard Depardon per l'Express) la si vede portata in braccio da un altro liberato.
Vera nasce il 2 febbraio 1948 da una famiglia della buona borghesia carioca. Comincia prestissimo a sviluppare una coscienza politica, a 15 anni è attiva nel movimento degli studenti medi. A 20 anni è con la Dissidencia de Guanabara (DI-GB), una frazione distaccatasi dal Partido Comunista Brasileiro (PCB) criticandone le linea pacifista, abbandona le comodità della vita borghese e gli amici per passare alla lotta armata. Partecipa ad azioni di esproprio a banche, supermercati e auto che trasportavano soldi. Alla sua prima azione, un esproprio di armi, mette una parrucca bionda e chiede del fuoco ad una guardia "che fu così ingenuo da posare il mitra per terra!".
Diventa così per il grande pubblico 'la bionda del commando', un cliché che la stampa, in Brasile come altrove, utilizzerà spesso parlando di azioni guerrigliere cui partecipano donne.
I giornali la battezzano 'Bionda 90', adducendo che usa due Colt calibro '45. Lei si schernisce: "Avevo solo una 38, e per giunta una baracca che si inceppava. Come unica donna nel gruppo, dovetti conquistarmi il diritto di avere un'arma migliore."
Nel settembre 1969 la sua partecipazione, come unica donna, all'azione di sequestro dell'ambasciatore americano, la rende la più odiata e la più ricercata dalla polizia.
Pochi mesi dopo, nel febbraio 1970, riesce a sfuggire all'arresto, ma vede ammazzare il suo primo marito, José Roberto Spigner, come lei ventenne. Un mese dopo , durante un volantinaggio nel quartiere Jacarezinho, Vera è ferita da un colpo che le attraversa la testa, ed arrestata.
È un venerdì di Pasqua, quando Vera esce dal coma un militare le chiede qual'è la sua professione. "Sono guerrigliera" risponde. "Allora ti tortureremo come un uomo" dicono gli sbirri, alludendo esplicitamente al Cristo. Fecero di peggio, e di tutto.
Il programma delle torture comprendeva il 'pau de arara' (trespolo sul quale il torturato è appeso a testa in giù), la 'sedia del drago' (una sedia elettrificata), il soffocamento, l'affogamento e ogni sorta di violenza fisica e psicologica.
Con Vera andarono fino a strappare le unghie, ma si concentrarono soprattutto sui genitali; per tre mesi, fino a quando l'ambasciatore tedesco non venne catturato dalla guerriglia.
Vera è a quel punto così malridotta che in giugno, quando è indicata nelle lista dei prigionieri da scambiare con l'ambasciatore tedesco, fanno girare la voce che si si rifiutata di accettare lo scambio.
Ancora 35 anni dopo, lei stessa noterà come questa memoria del falso sia rimasta assurdamente viva. Di fatto, la dovettero trasportare all'aereo per Algeri su una sedia a rotelle; aveva perso 25 chili dei suoi 60, e aveva un'emorragia renale.
La sua sola immagine smentiva il regime per tutte le sue ostinate negazioni della tortura.
Ad Algeri passò tre mesi in cura, e continuò l'esilio passando per Cuba, Cile, Argentina, Germania, Cecoslovacchia, Svezia e Francia, tornando in Brasile dopo l'amnistia del 1979. Ma si portò dietro, sempre, gli effetti fisici e psichici della tortura.
Le conseguenze della tortura appaiono molto tempo dopo. Io mi sono debilitata. Il mio midollo non funziona più. Ma malgrado tutto, non considero che siamo vittime. Siamo soggetti della nostra storia. È così che dobbiamo essere riscattati. Non siamo idioti. Principalmente perché siamo stati capaci di fare un'autocritica. Questo è molto importante. (Correio Braziliense 4.5.2002).Nel 2002, fu la prima persona torturata ad essere indennizzata dallo Stato, nel quadro della Carovana dell'Amnistia, con una pensione che fino ad allora era stata attribuita solo alle famiglie degli uccisi. "È difficile trasformare sofferenza in denaro. La maggior parte dei miei compagni non l'ha chiesto. Ma i miei problemi di salute lo esigevano"; Vera, oltre ad aver perso la stabilità delle gambe, ha dovuto affrontare problemi renali, cancro, complicazioni per eccesso di medicamenti, e soprattutto crisi psicotiche: "Dalla tortura ho ereditato uno stato di dolore. Vivo con dolore. Non ho smesso di essere torturata. Ho incubi ancora oggi. Ci sono notti in cui non dormo. Sogno i miei carnefici."
Nella lunga intervista-documentario realizzata nel 2004 dalla TV Camara (60', in portoghese, scaricabile qui: avi 282 mb) la sua condizione di sofferenza è visibile nel fisico e nei gesti.
Eppure l'intelligenza, la sensibilità e l'auto-ironia con cui aveva assunto le sue scelte ed affrontato le avversità, ci sono tutte; e questo fa del film un documento storico, da quando, il 4 dicembre 2007, a 59 anni, Vera ci ha lasciati.
(qui accanto, Vera con Cid de Queiroz Benjamin, e sopra, nel manifesto del film 4 Days in September, in cui la sua figura è rappresentata da due personaggi.)
Vie di lotta, traiettorie d'esilio
Ad Algeri, i prigionieri brasiliani liberati sono ospitati al Centre Familial di Ben-Aknoun. Davanti alla stampa internazionale, cominciano a realizzare realizzano quanto importante possa essere testimoniare delle torture, che praticamente ognuno ha subito, fino, come nel caso di Darcy Rodrigues, sergente dell'esercito passato con Carlos Lamarca alla guerriglia, a poco prima della liberazione.
Anche il settimanale germanico Der Spiegel manda, poco tempo dopo, una giornalista a vedere contro chi è stato scambiato l'ambasciatore della Repubblica federale tedesca. Il servizio prende il titolo da una frase dell'operaio metallurgico di Sao Paulo, Aderval Alves Coqueiro: "di notte, mi sveglio ancora nel terrore". Aderval sarà il primo di quel gruppo a rientrare in Brasile, ed a farsi ammazzare: rientrò clandestino il 31 gennaio 1971, ed una settimana dopo, il 6 febbraio, il suo appartamento clandestino a Rio de Janeiro venne localizzato, e la polizia lo fucilò sul posto, simulando poi una 'resistenza all'arresto'.
Un riquadro della rivista, intitolato 'Elettrochoc fino alle 7 di mattina', da spazio al racconto di Carlos Eduardo Pires Fleury, che sotto tortura decise di suicidarsi.
Accettò di rispondere, indicò un appuntamento clandestino che sapeva ormai 'bruciato' e, portato sul luogo come spesso avveniva per intrappolare i compagni, ne approfittò per correre in un negozio. Lì si impossessò di un paio di forbici che si piantò nel petto, sfiorando il cuore. Dovettero ospedalizzarlo, e due giorni dopo ricominciarono a torturalo con la 'sedia del drago'; ma ormai non credevano più di ottenere qualcosa, e dopo un po' smisero di interrogarlo. Anche Carlos Eduardo Pires Fleury rientrò in Brasile per continuare la lotta; nel libro Direito à memória e à verdade si racconta come, il 10 dicembre 1971, sia stato ritrovato in un automobile, crivellato da 12 colpi e con segni visibili di manette ai polsi.
Nel sito dedicato ai 'mortos e desaparecidos politicos', si trovano, oltre ad Aderval Alves Coqueiro e Carlos Eduardo Pires Fleury (vedi anche qui), anche altri due militanti sbarcati ad Algeri: Joaquim Pires Cerveira e Jeová Assis Gomes.
Il reportage dello Spiegel racconta di come i guerriglieri rifugiati a Ben Aknoun amino ritrovarsi passeggiando sotto gli alberi e discutendo per ore, per il piacere di stare insieme, di respirare senza l'angoscia di essere sorpresi dalla polizia, e di come lo facciano toccando le mani o le spalle di chi gli è vicino, quasi ad assicurarsi che questa ritrovata comunità non sia un sogno ad occhi aperti.
Le loro testimonianze sulla tortura sono sempre accompagnate da considerazioni politiche e riflessioni sullo stato della lotta armata, di fronte ad un conflitto che ritenevano sarebbe durato ancora a lungo, almeno dieci o vent'anni. "Non solo per la superiorità del nemico" diceva lo studente Carlos Minc Baumfeld, ma soprattutto perché le masse "hanno un bassissimo livello di coscienza politica".
Lo stesso Carlos Minc è oggi (dal 27 maggio 2008) Ministro dell'ambiente del governo brasiliano.
I guerriglieri appaiono coscienti dei limiti e delle responsabilità della sinistra nel lavoro di politicizzazione di massa. Dice l'ex-sergente Darcy Rodriguez: "Abbiamo riconosciuto che dovevamo rompere con le forme tradizionali di lotta, al momento non ci sono le condizioni, in Brasile, per grandi movimenti di massa, scioperi ed azioni di protesta."
Maria de Brito (nella foto, mostra i polsi accanto a quello che sembra Fernando Gabeira), membro della direzione della VPR e vedova del guerrigliero da cui ha preso il nome l'Unità di Combattimento che li ha liberati: "Siamo più deboli di quanto sembri. E l'altra parte ha più mezzi ed esperienza di noi." Un documento della VPR precisa: "La guerriglia va condotta senza romanticismi. Non è importante formare degli eroi, ma sviluppare una tecnica di combattimento che ogni militante possa far sua."
Nessuno parla di esilio, la convinzione comune è che la liberazione sia solo un passaggio per riprendere la lotta rientrando nel paese.
Al settimanale francese L'Express, che gli chiede dell'ambasciatore USA al cui sequestro aveva partecipato, Daniel Aarao Reis risponde senza mezzi termini:
"L'avreste davvero ucciso?"
"Si, tranquillamente. Non era il nostro obiettivo principale, ma era una questione di principio, senza la quale la sinistra rivoluzionaria ne sarebbe stata completamente demoralizzata. Del resto lo sapeva. Gliel'avevamo detto francamente."
Ci sono aspetti che non vengono pubblicizzati dalla piccola comunità che a Ben Aknoun si è organizzata nominando dei delegati interni.
"Non sempre la capitale mondiale della rivoluzione" scriverà nel 1984 Gabeira parlando di Algeri, "è il punto massimo della libertà di costumi. La mattina seguente a quella in cui fummo sorpresi a dormire insieme [lui e Vera Magalhaes si erano messi insieme e in seguito si sposarono], affrontammo le prime pressioni. Una commissione di compagni dell'ALN brasiliana venne a cercare l'MR-8, l'organizzazione cui appartenevamo, per presentare le sue critiche. Il nostro comportamento morale era compromettente davanti agli algerini.(...) L'organizzazione ricevette la critica con quella serietà mezzo divertita di chi è sorpreso dalla novità e si dispone ad esaminarla con attenzione, ma non arrivammo mai a discutere della questione. Cose più urgenti ci preoccupavano. La rivoluzione brasiliana stentava a tenersi in piedi. (...) Quali erano le cause della sua decadenza?" (in O Crepúsculo do Macho: depoimento, Nova Fronteira).
Ma almeno nella fase iniziale, la tensione principale che convogliava anche l'autocritica, mirava alla riorganizzazione per il rientro. L'Algeria non era vista come una base esterna della guerriglia in Brasile, offriva sì rifugio ma Cuba faceva ben di più.
All'Avana erano già arrivati, dal Messico, i prigionieri liberati dai due precedenti sequestri di diplomatici, e lì era possibile l'addestramento e la formazione, con l'accesso ad ogni genere di corsi, come quello di stato maggiore per i dirigenti.
Ad uno di loro, Mario Japa (Shizuo Ozawa, della VPR, rilasciato in cambio del console giapponese) i cubani chiesero di andare ad Algeri ad invitare gli altri all'addestramento.
Una volta arrivato, alcuni militanti del gruppo di Ben Aknoun lo accusarono di essere diventato un agente cubano. "Si creò una situazione tale, per cui i cubani finirono per mandare una persona a fare un invito ufficiale." Così riporta la storica Denise Rollemberg, in uno dei suoi studi (O apoio de Cuba a luta armada no Brasil).
Molti ci andarono, passando probabilmente per il Punto Zero, il sito vicino all'Avana destinato all'addestramento dei guerriglieri stranieri.
Ma la cosa si inseriva nel quadro dei rapporti con i cubani, tenuti dapprima da Carlos Marighella e alla sua morte da 'Toledo', che lo aveva rimpiazzato alla guida dell'ALN, cioè Joaquim Câmara Ferreira, che aveva diretto il sequestro dell'ambasciatore USA e che venne ucciso nell'ottobre 1970. E non era priva di contrasti, per il moltiplicarsi di scissioni delle organizzazioni armate brasiliane e per i continui tentativi di controllarle e dirigerle dei cubani.
Da Cuba, molti rientrarono in Brasile per morirvi poco dopo, come Carlos Eduardo Pires Fleury, di cui si è detto sopra, il leader, visto da Fidel Castro come il successore di Marighella e di Toledo alla guida della rivoluzione brasiliana, e in realtà dirigente della 'frazione dei 28' formatasi a Cuba e integralmente massacrata in Brasile.
Altri seguirono percorsi diversi, spesso passando dal Cile, dove l'11 settembre 1973, per il golpe del Generale Augusto Pinochet contro il governo di Unidad Popular, parecchi militanti brasiliani si rifugiarono in ambasciate straniere. Algeri restava sempre una retrovia possibile, addirittura per sottrarre un compagno ad un eccessivo potere dei cubani. Domingos Fernandes, uno dei 40 banidos di Algeri, racconta, in un altro approfondimento della Rollemberg (A ALN e Cuba: Apoio e conflitos), di aver rispedito in Algeria, all'insaputa dei cubani, Carlos Eduardo Fayal de Lira, con la scusa che la sua famiglia era arrivata ad Algeri. Da lì fecero in modo che non tornasse a Cuba e che potesse denunciare internamente all'organizzazione l'interferenza dei cubani.
Il vero retroterra oltreoceano non era, per l'ALN di quegli anni, l'Algeria, ma l'Italia; era passando da lì in uscita da Cuba che i suoi militanti ritrovavano la piena autonomia. Questo in forza dell'eccellente sostegno che riceveva da un'ala del Partito Comunista Italiano (PCI). L'ALN poteva addirittura contare su compagni con la 'doppia militanza', ma tutto questo passava lontano dall'ambasciata cubana. Poi con l'arrivo degli esuli si crearono reti d'appoggio.
L'eroe delle tre patrie e il Governatore del Pernambuco
Come direttrice d'esilio in alternativa ad Algeri primeggiava idealmente la Francia, per ragioni storiche riconducibili all'esilio dell'imperatore Dom Pedro II nel 1889 a Parigi, e per la presenza di figure come lo scrittore Jorge Amado e l'architetto Oscar Niemeyer. Tra i 40 banidos sbarcati ad Algeri, spiccava soprattutto la figura di Apôlonio de Carvalho, che fu anche il primo portavoce naturale ed autorevole del gruppo, la cui biografia politica giocò un ruolo nell'apertura della re-emigrazione verso la Francia.
Nato nel 1912, è un giovane ufficiale dell'esercito brasiliano quando, nel 1935, aderisce all'Aliança Nacional Libertadora (ANL), sorta di fronte popolare, e nel 1936 viene arrestato. È espulso dall'esercito, e quando, nel 1937, è liberato, aderisce al Partito Comunista Brasiliano (PCB). Con altri 20 brasiliani parte per la Guerra civile spagnola, arruolandosi direttamente nell'armata repubblicana con cui combatterà sino alla fine della guerra. Con la sconfitta dei repubblicani sarà internato in un campo di concentramento in Francia, da cui evade dopo 18 mesi, nel 1940, per raggiungere la Resistenza. La formazione politica e l'esperienza militare lo portano rapidamente al comando, e ad organizzare azioni come l'attacco della prigione di Nîmes nel 1944, per liberare 23 partigiani prigionieri. Nella Resistenza conosce Renée Laugery, una militante comunista che sposa nel 1943. Nel 1945, è tenente colonnello decorato con la Legione d'onore, la Croce di guerra e la medaglia della Resistenza, e l'anno successivo rientra in Brasile con la moglie ed il primo figlio. Ma poco dopo la nascita del secondo figlio l'attivismo comunista è di nuovo proibito, e la famiglia vive in clandestinità fino al 1953, quando Apôlonio parte in formazione a Mosca. Nel 1957 rientra in Brasile, è membro del Comitato Centrale del PCB, con cui romperà nel 1967, già clandestino a seguito del colpo di stato, per fondare con altri il Partido Comunista Brasileiro Revolucionario (PCBR).
Da Algeri chiede il visto per entrare in Francia, ma dato il suo curriculum politico, il Service de Documentation Extérieure et de Contre-Espionnage (SDECE) ritiene vada impedito l'accesso ad un 'terrorista comunista', ed il Ministro dell'Interno si oppone. De Carvalho è pubblicamente attivo, va per esempio a Ginevra su invito della Lega Svizzera dei Diritti dell'Uomo (LSDH), e lì le sue dichiarazioni battagliere vengono considerate inaccettabili: il Consiglio Federale ne decreta rapidamente l'espulsione, assieme ad altri due brasiliani; malgrado le proteste della LSDH, di partiti e associazioni, il governo sostiene goffamente che i tre visti erano stati rilasciati "per sbaglio" (Journal de Genève 9.11.1970). Dalla Francia l'Association Nationale des Anciens Combattants et de la Résistence (ANACR) invita Apôlonio de Carvalho fin dal suo arrivo ad Algeri, ma dovrà attendere a lungo.
Nel frattempo suo figlio René Luis è rilasciato con altri 69 prigionieri in cambio dell'ambasciatore svizzero Enrico Bucher, e 'banido' verso il Cile, mentre l'altro figlio, Raul, sarà scarcerato l'anno dopo. La famiglia si ritroverà nel 1973 in Francia, le cui autorità hanno dovuto riconoscere che la moglie e un figlio di Apôlonio sono cittadini francesi.
La rete di contatti che la figura dell'eroe di tre patrie, come lo definì George Amado, apriva, risultò centrale per lo sviluppo del lavoro di controinformazione e denuncia all'estero della situazione brasiliana.
Apôlonio reintrerà in Brasile dopo l'amnistia, e appoggerà fino alla morte, nel 2005, le lotte del Movimento dei lavoratori senza terra (MST). Fu uno dei fondatori del Partido dos Trabalhadores (PT, di cui aveva la tessera n. 1) e ancora recentemente è stato omaggiato dal Presidente Lula da Silva.
(Nella foto, Apôlonio de Carvalho con un Lula ben barbuto)
Un'altra figura parimenti leggendaria spicca nell'esilio algerino, quella di Miguel Arraes che, al momento del primo Atto Istituzionale del colpo militare, nel 1964, era Governatore eletto dello Stato del Pernambuco, in una coalizione progressista. Venne arrestato, perché rifiutò di sottomettersi, ed ottenuta la libertà provvisoria (habeas corpus) si rifugiò nell'ambasciata algerina. Sbarcò dunque per primo ad Algeri, dove restò per 14 anni, ospite del governo che gli mise a disposizione una residenza ed un passaporto diplomatico che gli permise di viaggiare. Aprì e mantenne rapporti con numerosi movimenti di liberazione ed i loro leader, da Amilcar Cabral della Guinea Bissau a Yasser Arafat.
Sotto l'impulso di questo decano degli esuli brasiliani nacque e si sviluppò la Frente Brasileira de Informaçao, il cui infelice acronimo FBI provocava ancora anni dopo il sorriso di Vera Magalhaes.
Creato "per rompere il silenzio col quale la censura della stampa e gli interessi delle grandi agenzie internazionali circondarono le vere condizioni di vita imposte al popolo brasiliano da una sanguinaria dittatutura militare", l'FBI pubblicò il suo Bollettino, oltre che in Algeria, in Francia, in Belgio, in Cile ed in Italia, dove risultava diretto da Pietro Pietrucci.
Miguel Arraes rientrerà in Brasile, il 15 settembre 1979, letteralmente tra le braccia del popolo; sono in duemila ad accoglierlo all'aereporto Galeao, e i suoi spostamenti successivi inducono manifestazioni cui partecipano da 50 a 100mila persone (le fonti sono citate nella tesi di Heloisa Amélia Greco, Dimensoes fundacionais da luta pela amnistia, Belo Horizonte 2003).
Tra le sue diverse testimonianze -nonché le carte del suo archivio in parte pubblicate dopo la sua scomparsa nel 2005- figurano ricordi su cui si ritornerà.
Qui appena quello singolare, di un episodio letteralmente cinematografico, ricordato da un suo amico. Ad Algeri, nel 1965, la deposizione di Ben Bella da parte di Houari Boumedienne era avvenuta, raccontava Arraes, approfittando delle riprese del film di Gillo Pontecorvo 'La battaglia d'Algeri'. I carri armati che si muovevano in città e di fronte al Palazzo del governo erano lì per il film, ma vennero utilizzati come minaccia nella prova di forza che portò alla destituzione del leader.
L'aneddoto è senz'altro molto suggestivo, ma non ha un riscontro reale. Sembra dare per vera una voce che girava per la cosiddetta 'radio trottoir', che come ogni telefono senza fili può avere il potere di 'creare' una notizia.
O forse, perché no, la voce fu creata e fatta circolare di proposito.
(nella foto, Miguel Arraes cond Abdelaziz Bouteflika, che con Boumedienne cacciò Ben Bella, e che è oggi Presidente della Repubblica).
(3 - continua)
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