Chi scorre i commenti ad articoli e post pubblicati sul web sugli sviluppi del caso Battisti, nota senz'altro un furore di reazioni raramente raggiunto. Nella loro quasi-unanimità esprimono rabbia, spesso impregnata di cattiveria cieca, e chiamano alla vendetta. Nel raccogliere il 'dalli all'assassino!' e raggiungere la folla virtuale al grido 'in galera!' non c'è ragionamento che tenga, contraddizione che freni, dubbio che sospenda. Così come accade nei linciaggi di strada -quando, sul cadavere fumante del colpevole giustiziato, l'errore si scopre orrore ma 'non è stato nessuno'- i propositi più truculenti riecheggiano nell'anonimità della rete. A differenza di quelli di strada, lasciano però tracce che possono essere osservate.
Il fatto è che, benché la rete consenta sempre più facilmente l'accesso alle fonti (se non primarie, almeno di pubblicazione originaria di una notizia) e la loro verifica, la 'formazione dell'opinione' segue percorsi brevi, ed in casi come questo si chiude rapidamente in un corto-circuito: dove si grida 'in galera' pur sapendo che Battisti è ancora in carcere. Tra l'altro, le autorità brasiliane non hanno mai parlato di scarcerazione, né la procedura di estradizione è stata interrotta o sospesa; anzi, il Supremo tribunale federale ha chiesto al Ministero Pubblico federale (che già aveva espresso parere favorevole all'estradizione) di esprimersi. Secondo il quotidiano Folha de Sao Paulo, il presidente del STF
Gilmar Mendes ha ricordato che nel caso del prete Olivério Medina, ex-militante delle Farc colombiane, il tribunale federale aveva deciso nel 2007 di liberarlo in attuazione della concessione del rifugio politico decisa dal Conare, e non, come ora per Battisti, da un atto del ministro.
Credere, obbedire, estradare
È probabile che i 'percorsi brevi' di formazione dell'opinione in casi come questo passino soprattutto dai titoli di scandalo gridati dalla stampa. Ma a leggere i testi della stampa italiana ci si accorge che sono conseguenti, che gli articoli non sono orientati ad un'informazione seria e completa. La decisione del ministro, oggetto e causa unica di tutte le polemiche, non è stata riportata da nessun media, e molto probabilmente neppure letta: se n'è parlato nel post precedente. Se qualche giornalista l'ha fatto, allora ne ha riferito in malafede -per partito preso, contra o pro che fosse.
Partiamo da un articolo per molti versi esemplare, quello di Omero Ciai sulla Repubblica del 15.1.09 (versione online qui).Vi si legge:
(...) Genro, esaminando il ricorso, ha creduto fondati i timori che Battisti ha manifestato nell'unica intervista concessa in Brasile, qualche giorno fa al settimanale Epoca: "Se torno in Italia mi ammazzano", diceva l'ex terrorista.Se è chiaro, per quanto si è detto prima sulla detenzione di Battisti, che le ultime due frasi affermano il falso, la sequenza costruita da quelle precedenti è semplice: Battisti si dice minacciato di morte da apparati repressivi illegali, il Ministro gli crede e gli concede il rifugio perché considera l'Italia uno staterello dittatoriale. Ora, nell'intervista al settimanale brasiliano Epoca, Battisti dice "Sono certo che sarei bersaglio di vendetta se andassi in Italia. Sarei morto. Il timore è evidente, visto che nel 2004, in Brasile, ho subito un tentativo di sequestro da parte di servizi segreti paralleli italiani." Niente più. Si riferisce con tutta probabilità alla notizia, apparsa nel luglio 2005, dei progetti di 'extraordinary renditions' portati avanti nel 2004 da un organismo illegale chiamato DSSA. Il sequestro di Battisti era chiamato "operazione porco rosso" e venne riportato dalla stampa (compresa quella francese, come Libération e Le Figaro del 5.7.2005, che parlarono di "polizia parallela" smantellata). Venne in seguito apertamente 'rivendicato' in un intervista alla Repubblica del 14.6.2006 (ripresa come un annuncio da un sito di polizie private), ed è comunque un notizia reperibile, se figura addirittura su Wikipedia. Questi timori (illegittimi?) li ha espressi Battisti in un'intervista, che Ciai considera equivalente ad un ricorso dei suoi avvocati giusto per concludere che il ministro li ha fatti propri.Un ragionamento che gli ottimisti definiscono di sillogismo creativo.
Per l'avvocato Greenhalgh, secondo Battisti e, a questo punto, anche per il ministro, in Italia sarebbero ancora attivi "apparati di repressione illegali" e a Battisti viene dato l'asilo "perché potrebbe essere perseguitato per le sue opinioni politiche". Una lettura tutta da discutere visto che paragona l'Italia ad uno staterello dittatoriale ma che, in mancanza di novità, è l'ultima parola sul caso. La decisione del ministro annulla e archivia infatti qualsiasi scelta del Tribunale supremo che può ora solo controfirmare la concessione dello status di rifugiato politico. Teoricamente Battisti è già libero e può decidere di restare in Brasile come di andarsene dove gli pare.
Il giorno dopo, 16.1.09 sulla Repubblica, Ciai scrive ancora:
Tutti però potevano pensarci prima ed evitare che Tarso Genro potesse, nella relazione che salva Battisti dall'estradizione, scrivere che l' Italia è un Paese dove si violano i diritti umani. Nel testo il ministro brasiliano ripercorre i nostri Anni di Piombo, fa riferimento alle leggi speciali contro il terrorismo, accenna ai «poteri occulti», cita Bobbio, ma alla fine sostiene non solo che le condanne di Battisti sono «dubbie», ma anche che ci sono «fondati timori che possa essere ancora perseguitato» se consegnato alla giustizia italiana. Il nodo che dovevano sciogliere i magistrati brasiliani riguardava la possibilità o meno che i delitti per cui è condannato in Italia Cesare Battisti fossero "politici" o "comuni". Il Tribunale supremo e l' organismo che valuta le domande di asilo politico si erano espressi a maggioranza per il secondo caso, e cioè che fossero delitti comuni; il ministro Genro sostiene invece, e grazie a ciò può concedere l' asilo, che sono delitti politici.Il giornalista dice quindi di aver letto la decisione del ministro (dove non si trova cenno a quanto sostenuto nel suo articolo precedente) ed afferma, sapendo di mentire, che vi è "scritto" che "l'Italia è un paese che viola i diritti umani". Aggiunge addirittura una falsa citazione (tra virgolette) che affermerebbe il medesimo concetto: "fondati timori che possa essere ancora perseguitato". Il falso, ingiustificabile, serve però al punto essenziale, a trasformare la lettura storica del tempo dei fatti, delle leggi speciali e dei processi (è di questo che scrive il ministro) a quella di un oggi, di un'attualità che risponde a condizioni completamente diverse, e dove quelle affermazioni non possono che suonare come accuse all'Italia.
Un esempio del cosiddetto giornalismo 'a tesi', una comunicazione politicamente perfettamente allineata alla reazione unilaterale del ceto politico italiano: offesa, indignazione, scandalo, ingiustizia. “È-un-assassino-deve-stare-in-galera”.
Il fantasma di Copacabana
Perché di “delitti comuni” si doveva parlare, dice Ciai nelle ultime righe citate sopra, e fantasiosamente aggiunge che il Supremo tribunale federale si sarebbe pronunciato contro il principio di considerare i reati di Battisti come “delitti politici”. Eppure lo stesso Battisti è in carcere in Brasile già da un po’ solo e sempre in attesa di una pronuncia del Tribunale supremo! Infine, ciò che davvero scrive il ministro Genro, è che le medesime autorità richiedenti italiane hanno affermato che si tratta di delitti politici, che le sentenze inviate per la domanda di estradizione sono esplicite in questo senso. Un giurista cosa dovrebbe fare, chiudere gli occhi sulla sentenza di condanna per associazione sovversiva pur di dire che si tratta di un delinquente comune?
Battisti è l’assassino con la A maiuscola, il criminale puro, in carriera per il posto di nemico pubblico numero 1, il condannato evaso e non pentito, un cinico la cui sola immagine risulta insultante e pertanto insultabile. I blog echeggiano di “in galera!”, a cominciare da quelli di sinistra (ne dà atto nell’unica ed isolata voce garantista Beppe Sabaste sull’Unità del 18.1.09); gli insulti si estendono in qualità, giù fino al fondo, fino ad un incontro da far sussultare anche i cultori del trash storico. Un’intervista a Maurice Bignami sulla Nazione, il cui cortese inizio suona così : “Cesare Battisti? ‘È un vigliacco, ma questo lo sapevamo da un pezzo’.” Con altrettanta magnanima eleganza, il Comandante Bignami, questo il suo grado nella gerarchia di Prima Linea, arriverà a fine intervista senza motivare l’improperio, lanciato a nome (parla al plurale) degli “ex-terroristi”. Ma sostiene che il rifugio politico a Battisti “non poggia su fatti concreti”; insomma, così dicon tutti, è un delinquente comune, un bandito puro.
E il fantasma di Battisti sulla spiaggia di Copacabana, immagine immaginata dell’impunità, non può che attizzare l’odio.
Così gli insulti si estendono al Brasile, paese di dubbia democrazia, che non ha lezioni da darci, pensino ai bambini di strada che uccidono. Lo spettro delle reazioni segue quello dei politici e dei commentatori, che parlano di "insulto al nostro paese" da una "democrazia a scartamento ridotto" (Di Pietro), di oltraggio, offesa, di "schiaffo alla giustizia", e un giudice (Severino Santiapichi) anche di "sputo in faccia". Il comune di Monterotondo rompe il gemellaggio con una città brasiliana (almeno cosi annuncia il Tempo). Sul sito del Manifesto, è un commento di una lettrice che ha lavorato in Brasile a ristabilire un po' d'equilibrio. Voce ancora più isolata, il comunicato del CARP (Comitato di assistenza ai rifugiati politici) stigmatizza il tono neocoloniale ed eurocentrico delle reazioni italiane. Altrimenti, nei blog ‘non di sinistra’ lo sfogo raggiunge livelli sublimi, il Brasile è il paese che ha ‘inventato i viados’, insomma. Chi reagisce con commenti interrogativi viene redarguito come ‘difensore di Battisti’, messo a tacere o insultato a sua volta.
E l’odio cristallizza, accanto allo slogan “in Italia e in galera” che campeggia nell’appello lanciato da Il tempo e firmato da tutti i politici, il grido ‘a morte’. Con variazioni tecniche, chi dice che Battisti merita la sedia elettrica, chi lo vorrebbe strangolare. Con questo segnando uno dei piccoli paradossi dell’affare: se il timore di Battisti essere ucciso poteva, prima, parere a chiunque esagerato, ora è decisamente difficile negarne il fondamento.
Il paradosso più grande, è che nel trattamento di questa vicenda si è talmente insistito nel voler apporre l’etichetta di delinquente comune, che si è ottenuto il contrario. Già dalla procedura estradizionale in Francia nel 2004, il caso Battisti era stato presentato come prova che la cosiddetta ‘dottrina Mitterrand’ proteggeva non degli esuli scappati dall’Italia E dalla lotta armata, ma degli assassini furbi e spietati. Come espediente comunicativo funzionò, sia sul piano giuridico che dell’opinione pubblica francese. Ma questa memoria degli anni 70 costruita in bianco e nero sul binomio vittima-carnefice, sembra essere talmente radicata che una qualsiasi sua discussione, anche se espressa come ‘atto sovrano’ di un altro Stato, viene vissuta come una dichiarazione di guerra, nel caso addirittura qualificata di incidente diplomatico. Eppure, ponendo l’alternativa tra delitto comune e delitto politico, ha ottenuto una smentita, poiché, come si è detto, il ministro non poteva ignorare le sentenze che condannano anche per delitti politici. Egli avrebbe avuto molte più difficoltà di fronte alla qualificazione di delitti di terrorismo, poiché, pur nelle centinaia di accezioni diverse di questo termine, esso può essere ostativo alla concessione del rifugio politico. Non è escluso un cambiamento di rotta da parte italiana; ma la vera questione emersa grazie al ministro brasiliano è quella del conflitto di memorie, ed è per non permettere che gli anni 70 siano raccontati come storia di criminali qualsiasi che Battisti non va abbandonato.
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