Cesare Battisti accolto in Brasile

Una saggia decisione

La decisione del Ministro di giustizia brasiliano è stata salutata con un urlo di gioia dalla scrittrice Fred Vargas (riportato sul sito di Bellaciao) e ricoperta da insulti da mezza Italia. Quasi nessuno l'ha letta, i giornali ne hanno riportato più nulla che poco. Vale forse la pena di segnalare il documento originale (destaque do Diario Oficial ripreso dal sito del governo brasiliano) che molto probabilmente è opera di pugno dello stesso ministro Tarso Genro.
Preliminarmente, va ricordata la differenza tra concessione di asilo (diplomatico) e di rifugio (territoriale - i dettagli sul sito del ministero di giustizia), e che la decisione del Ministro è il risultato del ricorso contro la decisione precedente del Conare (Comitê Nacional para os Refugiados, organo tecnico del ministero che aveva rifiutato lo statuto di rifugiato).

La decisione in dettaglio
Qui in breve gli argomenti chiari e ben argomentati sollevati nei diversi punti della decisione, che:
- ricorda che l'Italia non si è opposta alla connotazione politica dei reati contestati a Battisti, che al contrario risulta esplicita nelle sentenze di condanna, che parlano di "finalità di sovversione" (punto 8 e 26);
- si pone la questione se Battisti abbia un "fondato timore di essere perseguito per motivi politici" (questa è la formula della legge per lo statuto di rifugiato, punto 7) e per rispondere ricorre all'analisi usuale degli aspetti soggettivi ed oggettivi (9-11);
- descrive la "legittima repressione, da parte dello Stato italiano, della militanza di sinistra che voleva abbattere il regime con le armi durante gli anni di piombo". "Durante quel periodo, la società italiana e lo stato di diritto in Italia furono assediati da un insieme di movimenti politici, azioni armate e mobilitazioni sociali alcuni dei quali pretendevano l'affermarsi di un nuovo regime politico-sociale." Le organizzazioni rivoluzionarie che si formarono agivano "in zone 'grigie', nella stretta fascia tra l'azione politica insurrezionale di carttere armato e l'azione marginale del 'banditismo sociale'" (12-13);
- ricorda la reazione dello stato italiano come legittima per uno stato democratico di diritto, e che questa si fece "non soltanto applicando norme giuridiche in vigore all'epoca, ma anche creando 'eccezioni', attraverso leggi di difesa dello Stato, che ridussero le prerogative di difesa degli accusati di sovversione e/o azioni violente, compresa l'istituzione della delazione premiata" (14);
- considera che "nei momenti di estrema tensione sociale e politica è comune e prevedibile che si attivino, anche nello stato di diritto, apparati illegali o paralleli allo stato" il che a volte "configura una forte crisi di legalità: 'la legge perde il primato politico nel sistema'. In tali casi paradossalmenete la giudiziarizzazione della politica intacca le garanzie democratiche senza che il regime democratico sia posto in dubbio", e riporta, dopo un riferimento ad Habermas, una citazione dal Futuro della democrazia di Norberto Bobbio (15); e che
- anche in "situazioni d'emergenza come quella italiana" è fondamentale "che non si accetti mai deroga dai principi giuridici che sostengono i diritti dell'uomo", e "nel caso italiano le possibilità di abusi erano date dallo stesso ordinamento giuridico forgiato negli 'anni di piombo'" ovvero nell'arsenale di poteri di polizia e di leggi d'eccezione, descritti ricorrendo ad un approfondimento di Jacques Mucchielli (pubblicato in un lavoro sul ricorso al carcere nelle crisi politiche) (16);
- aggiunge che "è pubblico e non controverso il fatto che i meccanismi di funzionamento dell'eccezione operarono, in Italia, anche fuori delle regole della propria eccezionalità prevista dalla legge". È così che si formarono quelle forme di "potere occulto", "tanto più potente quanto meno si lascia vedere". E ciò "è professato in nome della preservazione dello Stato contro gli insorti, che non è meno illeggittima delle azioni sanguinarie degli insorti contro l'ordine". (17, 18);
- come argomento a contrario, richiama Carl Schmitt tra i teorici del diritto che non credono nella democrazia liberale, per dire con Bobbio che "quanto più eccezioni, tanto meno democrazia e diritto" (19);
- rileva che alcune misure d'eccezione adottate in Italia negli "anni di piombo" figurano ancora nei rapporti di Amnesty International e del CPT (Comitato europeo di prevenzione della tortura, con esplicito riferimento a questo rapporto 2007) (20); e che
- altre persone fuggite dall'Italia per "motivi politici legati alla situazione del paese nella decade del 1970 ed inizi anni 80", come Battisti, non sono stati estradati dal Supremo Tribunale Federale poiché le condanne italiane attribuivano loro l'intenzione di sovvertire violentemente l'ordine socio-economico italino, con esplicito riferimento al diniego di estradizione nel caso di Luciano Pessina (21);
- nota che il ricorrente (Battisti) ha subito direttamente gli effetti della legislazione d'eccezione italiana, e che le accuse contro di lui non si fondavano su prove periziali ma sulla testimonianza del "delatore premiato Pietro Mutti" (23, 24);
- contesta l'argomentazione che si tratti di delitti penali comuni, poiché la violazione della legge penale "costituisce, in alcuni casi, la 'giustificazione' giuridica dello Stato richiedente, senza la quale le possibilità di consegna del cittadino richiesto sarebbero senz'altro pregiudicate" (25);
- richiama la lettera di Cossiga, che "attesta che i 'sovversivi di sinistra' vennero trattati, nell'Italia degli 'anni di piombo', come 'semplici terroristi e talvolta assolutamente come delinquenti comuni'. La lettera conferma la qualità impropria di questa classificazione imposta" a Battisti (28);
- appoggiandosi sulla dottrina (F. Rezek, Direito internacional publico), conclude che "Non resta il minimo dubbio che, indipendentemente dalla valutazione del carattere politico o meno dei crimini imputati -comunque inaccettabili in ogni ipotesi, dal punto di vista dell'umanesimo democratico- costituisce fatto irrefutabile la partecipazione politica del ricorrente, il suo coinvolgimento politico insurrezionale et la pretesa, sua e del suo gruppo, di istituire un potere sovrano 'fuori dall'ordinamento'" (29, 30);
- afferma che è un "aspetto molto importante per l'esame della pertinenza della concessione di rifugio, il fatto che il ricorrente riparò sul suolo francese per ragioni politiche assunte per decisione sovrana del capo di Stato di quel paese", ricordando che "Mitterrand accolse i 'sovversivi' alla categorica condizione che facessero una rinuncia formale alla lotta armata" e che Battisti, "dopo la rinuncia alla lotta armata resto in Francia per una decade. Fondò una famiglia, sposandosi e facendo due figlie, e visse pacificamante lavorando come portiere e scrittore." La situazione cambiò durante il governo Chirac, che annullò l'ospitalità "per ragioni eminentemente politiche. Il cambiamento di posizione dello stato francese, che gli aveva conferito rifugio come militante politico dell'estrema sinistra, fu il solo motore della sua venuta in Brasile". Sicché il Brasile "è divenuto il 'depositario' di un cittadino, di fatto espulso da un territorio per decisione politica che si contrappone ad una decisione precedente che l'aveva riconosciuto come perseguitato politico(31-35);
- riassumendo che Battisti "per motivi politici si coinvolse in organizzazioni illegali perseguite penalmente nello Stato richiedente. Per ragioni politiche fu rifugiato in Francia ed anche per motivi politici, da cui scaturì la decisione politica dello Stato francese, decise, più tardi, di fuggire ancora", conclude che "L'elemento soggettivo del 'fondato timore di persecuzione' necessario per il riconoscimento della condizione di rifugiato è pertanto chiaramente configurato" poiché l'elemento soggettivo è basato su fatti oggettivi (36, 37).
- riafferma, con la dottrna, che la qualificazione di individui come rifugiati, ovvero come 'persone che non sono delinquenti comuni', è un atto sovrano dello Stato, e che anche nel contesto della protezione umanitaria vale il principio in dubio pro reo : "nel dubbio, la decisione di riconoscimento dovrà inclinarsi a favore di chi sollecita il rifugio" (38, 39);
- richiama infine la normativa Costituzionale e dei Diritti dell'uomo, segnalando che "non sussitono impedimenti giuridici per riconoscere il carattere di rifugiato del ricorrente. Benché si richiami a diversi illeciti che sarebbero stati commessi dal ricorrente, in nessun momento lo Stato richiedente (l'Italia) ha notificato uno dei crimini che impedirebbero il riconoscimento della condizione di rifugiato" (40-42);
- aggiunge in conclusione che "il contesto in cui ebbero luogo i delitti di omicidio imputati al ricorrente, le condizioni in cui si tennero i suoi processi, la sua potenziale impossibilità di un'ampia difesa a fronte della radicalizzazione politica in Italia, provocano come minimo un profondo dubbio sul fatto che il ricorrente ebbe diritto al dovuto processo legale" (43).

Qualche nota
Come chiunque può vedere, non v'è nella decisione del ministro alcun riferimento a rischi per la vita di Cesare Battisti, ed ancor meno a mafia o CIA.
La decisione di accoglierlo come rifugiato si fonda solo sull'esistenza di un "ragionevole dubbio sui fatti che, secondo il Battisti, sono alla base del suo timore di persecuzione", né più né meno. Anche le reazioni di Cossiga non possono essere seriamente riferite alla decisione, che, al pari degli altri politici, non ha letto.
Le reazioni, politiche e generali, meritano un'attenzione separata. Vale qui notare che il vero centro dello scontro è la memoria degli 'anni di piombo', ovvero la sua configurazione come storia politica.
Attraverso il caso Battisti il tentativo di criminalizzazione 'assoluta' della violenza politica degli anni 70 ha raggiunto un apice senza precedenti; l'insistenza nel volerlo configurare come un 'criminale comune', vuoi per la sua biografia o per le azioni dei Proletari Armati per il Comunismo (PAC), forte della riuscita campagna di mostrificazione (vedi il dossier su Carmilla) ma non confermata dagli atti, mirava e mira ad affermare una 'memoria storica' calcata su quella soggettiva dei magistrati anti-terrorismo (che ovviamente hanno condotto dei processi legalmente perfetti e non hanno mai fatto politica).
La decisione del ministro brasiliano, mostra, forse per la prima volta esplicitamente in un atto ufficiale, che la lettura di quell'epoca non può prescindere dalla constatazione dell'esistenza di un violento conflitto nel paese. Si noti che TUTTI i riferimenti al 'rischio di persecuzione' che tanto fanno inalberare i benpensanti, sono relativi all'epoca dei fatti e dei processi (fine anni 70 ed inizio 80!) e non all'attualità.

... à suivre
La decisione non è un atto finale. In diverse interviste immediatamente seguite all'inizio della polemica, il ministro Tarso Genro, difendendo la sua decisione come non motivata ideologicamente e come parte della tradizione di asilo del Brasile (che accolse anche l'ex dittatore paraguayano Stroessner, con accuse di crimini ben più gravi), precisa che i suoi dubbi sul rispetto del diritto di difesa nei processi italiani sono motivati dal fatto che l'avvocato di Battisti era lo stesso del pentito che lo accusava, e che -accertato da perizia francese- la nomina dell'avvocato non fu di pugno di Battisti, ma un atto falsificato.
Ma precisa pure (si veda ad esempio l'intervista alla TV Estadao) che il Supremo tribunale federale potrebbe decidere di continuare la procedura estradizionale, ed anche decidere l'estradizione annullando così la concessione del rifugio. Sarebbe questa, una situazione dal suo punto di vista "anomala", poiché finora le decisioni del STF, prese a maggioranza su casi singoli, hanno assunto che con la decisione di rifugio 'cade' la procedura d'estradizione; ma appunto il tribunale federale può decidere di modificare la propria giurisprudenza.
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